mercoledì 28 giugno 2017


I CONFINI DI MARLIANA.
Il mondo in un paese, quasi ai margini.


“Non vogliamo che Pistoia diventi come alcuni comuni della nostra montagna, come quello di Marliana, dove la sostituzione della popolazione con masse di profughi, quasi tutti islamici, è ormai inesorabilmente iniziata…”

Questa frase, pronunciata da un candidato di estrema destra, nel bel mezzo di un confronto pubblico al primo turno tra candidati sindaci a Pistoia, mi aveva fatto definitivamente decidere, dopo averlo rimandato alcune volte, di programmare un viaggio proprio a Marliana, per capire qualcosa di più.

A rendermi ancora più curioso, qualche giorno dopo, ci si era messa la notizia del battesimo di nove rifugiati nella chiesa di San Niccolò, officiata dal vescovo di Pistoia e dall’infaticabile parroco del paese, Don Alessandro Carmignani.

Volevo vedere con i miei occhi il famoso Albergo Europa, la pietra dello “scandalo”, una struttura ricettiva che, nel marzo del 2012, era stata riaperta, dalla sera alla mattina, per accogliere una quarantina di rifugiati, in piena crisi umanitaria post crollo dello stato libico.

Appena si arriva nella piazza del paese, però, è un altro albergo, completamente in rovina, ad attirare l’attenzione.

E’ “La Terrazza”, un pugno allo stomaco per chi ancora ricorda la vocazione turistica di Marliana e di molte delle sue frazioni, sbocciata negli anni sessanta, insieme al boom della vicina Montecatini e declinata tristemente dalla fine degli anni ottanta.
  Albergo “La Terrazza”

Mentre aspetto Don Carmignani, come di consueto in ritardo, comincio a chiacchierare con Margherita Giuliani, insegnante in pensione, impegnata in molteplici attività e, in anni lontani, assessore alla cultura.

“Sono nata qui, la mia famiglia è marlianese da generazioni”, esordisce Margherita.

“Chi dice che il degrado del paese è iniziato tre-quattro anni fa con i profughi –continua -mente sapendo di mentire. L’albergo Europa, chiuso nonostante la sua bellissima posizione, è solo uno degli esempi possibili.

La Giuliani è un fiume in piena, si è occupata in passato, per ragioni di famiglia, anche di ricezione turistica e ristorazione.

“Marliana e gran parte del suo territorio, penso al Goraiolo, Serra Pistoiese, Panicagliora, Femminamorta - racconta la Giuliani -aveva visto un fiorire del turismo legato a due fattori. Il primo: un tipo di vacanza, quello degli italiani degli anni post boom economico, che spesso permetteva nella nostra montagna soggiorni lunghi di un mese o più; il secondo: il fiorire del turismo termale a Montecatini, che da qui dista meno di dieci chilometri”.

 Nel territorio di Marliana, oltre a numerosi alberghi e rinomati ristoranti, fiorirono una miriade di seconde case, costruite spesso senza criterio, al limite delle regole urbanistiche.

“Il bosco è pieno di queste villette, cresciute come funghi, molto di più di quello che non appare dalla strada principale”, continua l’ex insegnante.

Oggi la parola che più di frequente si legge sulle villette è il cartello vendesi, anche il bosco ha visto il declino dei castagneti e la diffusione sempre più ampia dell’acacia.

“Oltre  a problemi e situazioni oggettive che hanno colpito anche altri territori di montagna e termali - conclude la mia interlocutrice - posso affermare che a Marliana è mancata, spesso, la cultura dell’accoglienza”.

In realtà non tutto è così negativo, nel frattempo, chiusi gli alberghi, si è sviluppata una discreta rete di Bed and Breakfast, frequentati da persone del Nord Europa, olandesi soprattutto.

Sono turisti, però, che cercano di poter camminare nella natura, praticano il trekking, e spesso trovano sentieri interrotti e non ben curati.


La rivincita del bosco, nei pressi del “Goraiolo”.

Mentre è arrivato Don Carmignani, come in una scena di un film, sulla salita che porta alla canonica della chiesa di San Niccolò, arriva faticosamente, a singhiozzo, un vecchio pulmino blu, non senza spegnere il motore a metà della salita stessa.

A bordo diversi rifugiati e un animatore, anch’egli africano, che, con un sorriso, prova a chiudere il finestrino, un tempo elettrico, a suon di botte sui vetri.

Don Carmignani, sinceratosi dello stato del mezzo e salutati gli occupanti, tutti in attesa di iniziare nei locali della parrocchia il corso HCCP, si aggiunge alla conversazione, insieme a Lucky Ove , richiedente asilo nigeriano.

“Anche io, quando arrivai a Marliana, dieci anni fa, confida il parroco, ebbi qualche problema di ingresso. Il prete precedente, alla notizia della sostituzione, si era barricato in canonica e celebrava la Messa solo per alcuni fedeli a lui graditi. La situazione, surreale, durò due anni”.

“Marliana, continua Don Carmignani, sconta il fatto di non essere situata su una strada di ampia comunicazione, non arriva il metano e, fino a qualche tempo fa, persino nella piazza principale non aveva campo il cellulare”.

Il luogo, in realtà, ha ancora potenzialità, si trova in una posizione baricentrica tra Pistoia, Montecatini, Pisa, Lucca e Firenze.

L’arrivo progressivo di tre comunità di rifugiati, (oltre all’albergo Europa, si sono aggiunte le case gestite dalla cooperativa “Gli Altri” e i migranti accolti in parrocchia) si è inserito in un territorio che viveva già una serie di confini interni storici.

Il territorio è fortemente diviso tra la parte che gravita sulla Valdinievole e quella di Momigno e Montagnana, tutta proiettata su Pistoia.

Il confini di Marliana seguono i fiumi, la Nievole e il Reno.

In un comune di tremila abitanti, ci sono due scuole elementari e molto poche sono le iniziative che uniscono i due versanti che fanno vita quasi separata, hanno dialetti diversi e collegamenti infrastrutturali scarsi.

Alcuni anni fa, ricorda Carmignani, tentammo di organizzare una sorta di “Giochi senza frontiere” del Comune, con scarso esito.

Il rovescio della medaglia, in positivo, ricorda il parroco è che qui ci si conosce comunque tutti, c’è l’abitudine di lasciare le chiavi di casa sulle porte esterne.

Così, alcuni anni fa, il mondo, molto diverso dai turisti americani della patinata Montecatini degli anni settanta, è arrivato a Marliana.


Margherita Giuliani, Alessandro Carmignani, Lucky Ove

Dando seguito ad una richiesta della prefettura, proprio nell’albergo Europa, sono arrivati i primi profughi, circa una quarantina, con una prima gestione di sostegno “umanitario”, gestita direttamente dalla proprietà dell’albergo Europa, continuata poi con il supporto, meramente formale, di una cooperativa della Valdinievole.

Anche la parrocchia, con un progetto diverso, accoglie otto rifugiati, in rete con quelli ospitati, a Pistoia, a Vicofaro e Ramini, mentre poco meno di una ventina sono quelli coordinati dalla cooperativa sociale “Gli Altri”.

Ragazzi tra i venti e trent’anni, africani, in prevalenza provenienti dalla Nigeria, che hanno affrontato un percorso lungo, pericoloso e doloroso, nel deserto africano, fino alla Libia e alle coste siciliane.

Sono arrivati a Marliana, per caso, del tutto ignari dei luoghi, a seguito della ripartizione tra territori del programma “Sprar” del Ministero degli Interni.

Quasi tutti vivono nel limbo dell’attesa, lunga, infinita, degli esiti dei colloqui con la commissione ministeriale che giudica l’idoneità per il diritto d’asilo.

Come Lucky che sta per aprirsi  nel raccontarmi la sua storia, lasciandomi senza fiato e senza parole. 

Lucky ha ascoltato con pazienza tutta la storia di Marliana. Porta una croce molto evidente sulla maglietta, è tra i nove migranti battezzati la settimana precedente da Don Carmignani.

Nigeriano, nel paese africano faceva il falegname.

E’ a Marliana esattamente da un anno e quattro giorni, all’inizio fatico a comprendere appieno la sua storia, non solo per la barriera linguistica.

Era un padre e un marito felice Lucky, di formazione cristiana evangelica, genitore di un bimbo piccolo e con un’altra figlia in arrivo.

Mi racconta di rapporti tribali e familiari ancestrali, in cui la famiglia del padre, scomparso, pretendeva di reintrodurlo, in quanto primogenito.

Il racconto si fa lento, circostanziato.

Continue pressioni per entrare in una sorta di società segreta e prendere il posto del padre, capo di un gruppo animista, da cui si era già precedentemente distaccato.

Una notte, terribile che cambia la vita. La violenza esplode enorme mentre lui è fuori casa. A farne le spese il figlio, piccolissimo, ucciso in un lago di sangue, quasi come in un agghiacciante rito iniziatico.

Nessun aiuto dalla polizia, complice e vittima di un potere senza controllo.

Di lì la scelta di fuggire. La via di terra, il deserto, l’arrivo in Libia e la traversata via mare, fino a Palermo.

Senza soluzione di continuità, per il destino casuale su cui interviene il progetto di accoglienza del Ministero dell’Interno, la sua nuova destinazione è Marliana.

Gli chiedo come si trovi, dopo aver attraversato così tanti confini, nel piccolo centro della Valdinievole.

Gli occhi del giovane uomo africano mi guardano, non fuggono l’incontro. “Non è la vita che volevo. Il mio pensiero è sempre rivolto a chi è rimasto a casa, alla mia piccola figlia che non ho mai visto se non in fotografia. L’attesa del giudizio della commissione sull’asilo – continua Lucky - è snervante, lunghissima, soffro il poter fare davvero poco.”

Mi dice di non trovarsi male a Marliana, ha conosciuto molte persone, è comunque grato di aver trovato un “posto”, sia pure provvisorio. Un paio di episodi non gradevoli, marginali, sembrano nulla rispetto a tutto quello che ha passato.

Chiedo, prima di chiudere il taccuino, il nome della piccola bimba che lo aspetta in Nigeria, o in qualsiasi altra parte del mondo.

Il nome, nella versione originale africana, è troppo difficile per me.

Lucky prende la penna, afferra il foglio, trova uno spazio tra i miei appunti disordinati.

Scrive la traduzione inglese del nome della sua secondogenita.

GIFT. Dono.

Non ho nulla da aggiungere, se non un abbraccio.
Francesco Lauria
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giovedì 22 giugno 2017

Nel mezzo della “notte”

Lettera aperta a Samuele Bertinelli


Caro Samuele,

Dopo una lunghissima e difficile settimana ho iniziato a scrivere questi pensieri su un malandato treno regionale, che da Bologna mi portava verso Prato.
Un treno di poche carrozze, di quelli in cui si abbassano ancora i finestrini , con i vetri quasi tutti oscurati, almeno per una buona metà, dalle scritte colorate con lo spray.
Di fianco a me una ragazza mulatta, con i riccioli neri, sui trent’anni. Parlava in italiano, con un’inflessione indiscutibilmente emiliana e, al telefono, raccontava di un colloquio con una famiglia, per un posto di badante.  Le avevano chiesto se fosse italiana e la sua risposta era stata molto semplice: “sì, certo che mi sento italiana, anche se, formalmente, non lo sono”. Era contenta,  raccontava che la famiglia non solo l’avrebbe assunta, ma, addirittura,  voleva: “metterla in regola”.
Ho pensato all’incontro organizzato sul tema, difficile, del testamento biologico, nel quale sei intervenuto. Un incontro rispetto al quale, per altri aspetti, ti ho criticato.
Un intervento come sempre debordante il tuo, quasi senza lasciare spazio a Mina Welby.
Ricordo, però, anche le parole, più che corrette, sullo ius soli, sul ritardo del paese e delle forze politiche nel riconoscere a tanti ragazzi e ragazze nati o cresciuti in Italia, i diritti/doveri civili ed etico-morali della cittadinanza.
Dall’autunno del 2016 ho preso progressivamente distanza da un tuo modo solitario e arrogante di interpretare il  ruolo di sindaco, in rapporto ad un partito che a metà ti era pregiudizialmente ostile e per l’altra metà accettava senza dialettica ogni tua decisione.
Ho sperato e ho lottato, insieme ad altri, per costruire un campo ampio, di civismo programmaticamente orientato verso contenuti di centrosinistra,  non liberisti, un’alternativa, una via differente.
Questa alternativa, per vari motivi, non ha saputo convincere e ci ha lasciati di fronte a questo clima infuocato, con una città divisa e che, in buona parte, sembra violentemente ansiosa di rivincita e rivalsa nei tuoi confronti.
Hai molto sbagliato, hai scritto, te lo confermo.
Proprio, per questo non mi è facile votarti con entusiasmo. Ma mi rendo conto che non è giusto farsi guidare dal risentimento o dal pregiudizio.
Molti, tanti, miei amici e conoscenti, vivono il dubbio e la tentazione, che mi ha accompagnato in questa settimana, di votare scheda bianca o di annullare il voto.
Alla fine, mi sono convinto, “scegliere di non scegliere” è un errore.
E’ troppo facile.
Non è possibile non considerare queste elezioni un voto politico.
In cui misurare non solo i valori, ma anche gli obiettivi e i programmi, e in cui pronunciarsi non contro una persona o un partito, ma decidendo tra due opzioni, molto differenti.
Non è possibile rincorrere un cambiamento a prescindere da che tipo di cambiamento sia, né consolarsi con l’illusorio concetto che incendiando il centrosinistra pistoiese certamente cresceranno fiori migliori.
Appiccare un incendio è sempre un errore, in qualsiasi situazione ci si trovi.
Mi auguro che, almeno un po’, tu e molti altri abbiate compreso la lezione.
Da oggi, certamente, Pistoia è una città “politicamente contendibile”.
E’ un fatto positivo e che non potrà che rendere le persone ancora più esigenti con te e la futura giunta, se riuscirai a risalire l’onda che oggi sembra crescere a tuo discapito.
Mi aspetto una rinnovata politica di difesa dal consumo di suolo, ma allo stesso tempo una esplicita sfida per  rilanciare un florovivaismo ambientalmente e socialmente sostenibile, un impegno programmatico per il recupero delle tante aree dismesse della città, la consapevolezza che non ci sono più scuse nel far partire una vera raccolta differenziata dei rifiuti, da accompagnare percorsi partecipativi realmente inclusivi.
Mi aspetto partecipazione  che si coniughi nell’accoglienza dei migranti, come dei turisti, in politiche di valorizzazione condivisa del territorio, dei parchi, mi aspetto che tu sappia spronare in maniera diversa da quello che hai fatto in questi cinque anni, la città a ritrovare se stessa per aprirsi di più all’Europa e al mondo.
Mi aspetto un governare per e non un governare su, anche nel rapporto con i corpi intermedi, con chi non la pensa come te.
Vorrei, concretamente, tra cinque anni, nuotare in una piscina comunale, che non cada a pezzi e in cui si promuova lo sport per tutti.
In conclusione, affidandoti un voto, credo, in parte inaspettato, mi sento di consigliarti una lettura.
Sta scritto nel bellissimo dialogo tra Carlo Maria Martini e Georg Sportschill: “Conversazioni notturne a Gerusalemme” che la notte è un momento di oscurità, di immaginazione, i sensi si affinano.  Ma la metà della notte è il principio del giorno. Un cammino, in tempi di incertezza.
Vivi pienamente, caro Samuele, questi giorni e queste notti di incertezza, affina i sensi, fai muovere non solo la tua razionalità, ma anche la tua immaginazione, percorri percorsi e compagnie un po’ diverse dal consueto.
Io, non senza fatica, ho scelto di sceglierti, consapevole del rischio, ma inevitabilmente anche con la necessaria dose di fiducia.
Spero che anche altri, indecisi, lo facciano.
Perche Pistoia sia “solidale e aperta”.  Anche per i cittadini di domani,  quelli con i riccioli neri o gli occhi a mandorla, che colorano i nostri asili, al di là di quello che c’è scritto, per ora, sui loro documenti.

7.45 del mattino.
Pistoia, quarant’anni dopo: terrorismo, memoria, speranza.
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Le 7.45.
Per molti è l’ora in cui, dopo un caffè di fretta, si esce di casa, si portano i bambini all’asilo o a scuola, ci si incammina, a piedi, in bicicletta, in macchina, verso gli uffici, i luoghi di lavoro.
Per tre anni, proprio accompagnando mio figlio all’asilo, in via Cavallerizza, sono passato decine di volta a fianco di Via Borgo Viterbo, a Pistoia, senza mai notare questa strada che si incunea stretta, tra le case.
22 giugno 1977.
7.45 appunto.
Giancarlo Niccolai, consigliere comunale democristiano, impegnato a livello nazionale nei gruppi di impegno politico Dc sui luoghi di lavoro, esce di casa, saluta la moglie e il figlio dodicenne, fa pochi passi. Si appresta a salire sulla bicicletta.
Deve recarsi alla Breda, dove lavora nell’ufficio del personale e in cui, in quota Fim Cisl, è anche componente del Consiglio di Fabbrica.
Vicino a casa sua, oggi, c’è ancora la siepe dietro la quale si nascosero i terroristi di Prima Linea, componenti del gruppo guidato da Marco Donat-Cattin, figlio del leader democristiano Carlo, che aprirono il fuoco su di lui.
“L’intento - ricorda Niccolai - non era solo quello di gambizzarmi, ma di uccidermi. Fu uno dei primi attentati di questo livello in Toscana – continua  Niccolai - i terroristi erano arrivati a bordo di una Mini, che fu poi ritrovata a Firenze, insieme al volantino di rivendicazione”.
In quella mattinata calda, con le finestre aperte, sembra di ascoltare il grido disperato della moglie di Niccolai, subito accorsa: “Oggi è toccato a noi, è toccato a noi!”.
Dove quel noi, certamente, rappresenta il grido intimo e familiare di una coppia di genitori, ma che, metaforicamente, può significare anche Pistoia, una città che viveva di riflesso le grandi manifestazioni e agitazioni di piazza del ’77 che coinvolgevano, in particolare, Bologna e Firenze.
In quel momento siamo davvero quasi all’apice degli attentati terroristici, sia di matrice rossa che di matrice nera, manca meno di un anno al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro.
Pistoia aveva subito solo un altro attentato dalle dinamiche poco chiare: il 6 gennaio 1976 era saltata in aria l’auto del direttore di uno stabilimento tessile, in un’azione rivendicata dal: “Nucleo operai comunisti”.
“Fu una stagione politica e sociale molto complessa – confida Niccolai – si avvertiva già il processo che avrebbe portato alla crisi dell’unità sindacale, lo scontro in fabbrica, anche alla Breda era molto forte, anche se mai degenerò, in alcuno, in fiancheggiamento al terrorismo”.
A livello politico nazionale, molto delicato era l’equilibrio del percorso di convergenze (“parallele”) tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, guidati da due grandissime figure come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Un percorso che, inevitabilmente, lasciava spazio alla sinistra più estrema.
Si avverte l’eco di questo contesto nelle parole livorose del comunicato di Prima Linea, successivo all’attentato a Niccolai, che denunciava l’accordo di Dc e Pci nell’imporre la “pace sociale agli operai”.
I “riformisti” secondo Prima Linea erano: “colpevoli di complicità negli strumenti di controllo e di dominio sulla classe proletaria”. Per l’organizzazione terroristica si passava, con l’attentato a Niccolai, dalla lotta armata alla prospettiva della “guerra di classe di lunga durata”.
Una folle illusione: la parabola terrorista in Italia, purtroppo non nella ferocia, ma nella sua capacità di permeare pezzi di società, era già in una fase discendente. Un declino rafforzato dalla reazione generale all’assassinio di Aldo Moro e a quello, avvenuto nel gennaio del 1979, dell’operaio comunista Guido Rossa.

Niccolai fu ferito gravemente, rimase ricoverato in ospedale per tre mesi.
“Pur con poche forze, ricorda, chiesi di non essere trasferito a Firenze, ma curato presso l’Ospedale del Ceppo”.
“Era in corso, a Pistoia - mi dice con voce insolitamente pacata - la festa dell’Unità, con ospite il dirigente nazionale Aldo Tortorella. La festa fu subito sospesa, Tortorella e Vannino Chiti vennero subito a trovarmi in ospedale.”
Immediatamente, anche alla Breda, fu proclamato lo sciopero unitario dei lavoratori, la società pistoiese tutta si recò di fronte al Ceppo, dove era curato il dirigente democristiano seriamente ferito.
Pochi mesi dopo ci fu una soffiata, i componenti del commando furono arrestati e processati.
“Non ho voluto eccedere nel dare un significato “politico” al perdono che ho maturato nei confronti dei terroristi e che esplicitai anche nel mio rifiuto di costituirmi parte civile nel processo.
Il perdono è un’arma di pace, ma è anche un gesto individuale e familiare, non può non essere accompagnato dalla giustizia e dalla memoria.”
La memoria, quasi un’ossessione per Niccolai.
La sala del Centro Donati, in piazza San Francesco a Pistoia in cui ci incontriamo, ne è permeata, tra manifesti, immagini, fogli dattiloscritti, vecchi computer ormai in disuso.
“E’ importante, fondamentale, proprio oggi che un terrorismo del tutto diverso, è tornato a permeare le nostre vite, che i nostri ragazzi e ragazze conoscano ciò che è accaduto, cosa successe alla società italiana durante il terrorismo politico, quale fu la risposta della società e delle istituzioni.
E’ un tempo chiuso, che non ha legami diretti con l’oggi – continua Niccolai. Pur con mille limiti la classe politica e parlamentare dell’epoca, maggioranza e opposizione, aveva un legame con la cittadinanza, con il “popolo”, che ora è indubbiamente, desolantemente perduto.”
L’arco costituzionale seppe resistere alla tentazione di un’eccessiva e probabilmente illusoria compressione dei diritti e il terrorismo fu sconfitto, soprattutto, dalla risposta della nazione, non dalle leggi speciali.
Quarant’anni dopo l’anniversario dell’attentato a Niccolai, ricorre, curiosamente, quasi nel giorno della sentenza definitiva per la strage di Piazza della Loggia.
Ricostruire una memoria civile e diffusa di quegli anni, è operazione non banale, ma non appare più rinviabile.
Se il terrorismo degli anni settanta è, per fortuna, una pagina chiusa dalla storia, il germe sciagurato dell’odio politico e della violenza è, purtroppo, sempre pronto a germogliare. Rischiamo, un po’ come con Borgo Viterbo, a Pistoia, di non vederlo, o di attraversarlo di fretta, presi dai nostri problemi quotidiani.
E invece, non deve rimanere invisibile il ricordo di quello che è stato, perché c’è molto di quello che oggi noi siamo.
Proprio per questo l’ostinata testimonianza del “fastidioso” Niccolai, come bonariamente lo apostrofò Florio Colomeiciuc: “è un segno di salvezza,” per una città che vuole continuare a credere nella speranza del futuro oltre che rinsaldare e rinnovare le proprie radici antifasciste e democratiche.

Francesco Lauria

lunedì 19 giugno 2017

IL GIORNO DI DON PRIMO E DON LORENZO. 
Una festa che non si esaurisce oggi.
"Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi!". Questo passo del Vangelo di Luca, probabilmente, con ironia, è oggi nei cuori di don Primo e Don Lorenzo.
E' passato, infatti, il tempo dei "processi postumi a Don Milani" e all'oblio cui si voleva destinare Don Mazzolari, con i suoi "estremismi pacifisti".
Oggi è un giorno di festa. Il duplice omaggio di Papa Francesco, tra il sud della Lombardia e le montagne toscane, non può che riempire di gioia chi ha considerato questi due grandi testimoni e protagonisti un faro anche per il presente e per il futuro.

Non si adorano le ceneri, ma si coglie, come diceva Paolo Giuntella, il fiore rosso e il tizzone ardente della testimonianza.
Pensiamo ai testi di Don Primo Mazzolari sul valore del lavoro, raccolti nella bella pubblicazione, edita nel 2015 dalle Edizioni Paoline e intitolata proprio: "L'uomo vale perchè lavora", al manifesto stupendo e non sempre compreso di Don Lorenzo che non può che essere: "Lettera a una professoressa" sulla coscienza nell'educazione, non solo dei ragazzi.
Nel tempo della terza guerra mondiale a pezzetti e dell'immanenza pervasiva del terrore, di fronte alla vendetta di ieri a Londra, nell'attentato contro la moschea, appaiono profetiche ed esigenti le parole di Don Primo: "Non è giunto ormai il momento, per la teologia, di individuare, di smascherare, di colpire tutte quelle forme mentali, quelle tacite acquiescenze, quelle attività criminose che preparano da lontano ma sicuramente le guerre?"
"Se vuoi la pace prepara la pace". Un messaggio universale, esigente, nonviolento. 
Un messaggio che Don Lorenzo coglie in una dimensione che, di fronte al rigurgito degli egoismi nazionali, non può che essere senza confini e senza steccati. Lo scrisse ne "L'obbedienza non è più una virtù": "Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri."
Ecco, non occorre aggiungere molto altro.
Teniamo aperti la mente e il cuore al messaggio, mai addomesticabile e sempre positivamente inquieto di Don Mazzolari e Don Milani. 
Senza mai tenere le mani in tasca, ma sforzandoci di tenerle aperte, non minacciose, di fronte all'altro, chiunque egli sia.

sabato 17 giugno 2017

LA FAVOLA DEL PARMA E DI PARMA 
IERI A FIRENZE.
Di calcio, emozioni e migrazioni. Di orgoglio ritrovato e festa contagiosa, di salame e tramonti, tra l'Australia, le colline toscane e la via Emilia.

E' difficile raccontare la profondita' delle emozioni provate ieri sera allo stadio Franchi.

Manco stabilmente da Parma, la mia citta', salvo rare parentesi, dal 1998.
Dentro di me ci sono le tavolate di San Giovanni, quella cosa difficile da spiegare fuori regione che e' la torta fritta, la strada che dalla mia prima casa di via Montanara porta alle colline di Felino, i campi di pannocchie dietro via Basile che ora sono diventati nuovi quartieri. Spostandomi un po' l'Oltretorrente, custode della memoria antifascista della citta', che e' il cuore di una parmigianita' ormai meticcia, con quella erre arrotata, comune anche ai ragazzi parmigiani di seconda generazione, che ormai ho perso e che non piaceva a Dante Alighieri, ma che e' un marchio inconfondibile attraverso il quale ci si riconosce nel mondo.
Beh, in curva Ferrovia, allo Stadio Franchi, nella bellissima finale di Lega Pro che ha riportato il Parma Calcio in serie B, mi sono sentito felice come un vecchio emigrato in Australia durante un concerto di Toto Cutugno. Ho visto l'orgoglio positivo di una citta' e di una societa' che si e' rialzata dopo il crac Parmalat, ma soprattutto dopo l'oscuro e assurdo buco di tre anni fa che porto' alla vergogna di un campionato umiliante e alla farsa dei presidenti prestanome che affossarono ogni speranza.
Ho visto Cristiano Lucarelli alzare la coppa di fronte ai tifosi, tantissimi, in delirio, orgogliosi di un giocatore che mai ha abbandonato la nave alla deriva. Come in un flash ho incontrato Marta una mia ex compagna delle scuole elementari, accompagnata da una figlia quasi piu' alta di lei, e ho ricordato con lei i festeggiamenti dello scudetto della Maxicono, altro sport, altra epoca.
In queste ore rimangono sullo sfondo gli imminenti compratori cinesi, il business dei diritti televisivi, ma traspare la passione per lo sport e l'orgoglio contagioso di una festa ritrovata.
Cosi', tornando verso Pistoia, e gustandomi il tramonto ritardato di un caldo giugno tra le colline toscane, ieri ho pensato a quanto sia bello scoprire e conoscere il mondo, ma anche a quanto sia importante non dimenticare, non disperdere, pu sempre rinnovandole, le proprie radici.
In fondo mi sono sentito come quando mio figlio Jacopo, che ancora non sa leggere e che la erre arrotata la sente quasi solo da Mattia, il figlio parmigiano di una mia ex compagna di universita' feltrina, quando, dopo una vacanza un po' prolungata, riconosce, giunti al ponte di pietra sul Vincio, il cartello di Gello. Ed esulta felice.
Forza Parma! Meriti la serie A!!!.


Francesco Lauria

mercoledì 14 giugno 2017

LA GRANDE OCCASIONE PERSA DAI COMITATI E DA GINEVRA LOMBARDI
L'immagine contenuta in questo articolo dovrebbe insegnare molto. E' l'immagine dell'assemblea aperta e pubblica della Coalizione Civica per Padova per decidere, dopo il 23% (ventitre) preso al primo turno, cosa fare al ballottaggio. Tre opzioni: non appoggiare nessuno, appoggiare il centrosinistra senza apparentamento, appoggiare il centrosinistra con apparentamento. Immagino che la decisione non sarà stata semplice e nemmeno, sinceramente, ancora la conosco. Ciò che conta è il metodo, quel metodo che, in due anni, ha fatto crescere questa alternativa civica, partecipativa, ecologista, dal 10 al 23% in una città in cui moltissimo si è giocato sui temi del contrasto all'immigrazione e della paura. Purtroppo tutto questo a Pistoia, pur con le dovute proporzioni dimensionali, non è accaduto, non accade e, temo, se non cambia qualcosa, non accadrà. La campagna elettorale che ha visto Ginevra Lombardi presentarsi nel segno del cambiamento, della partecipazione, della trasparenza e della sostenibilità ha mostrato tutte le sue debolezze e il risultato finale, deludente, poteva anche essere peggiore. Molte cose, per chi le ha vissute da dentro, non possono essere raccontate, per questioni di correttezza e di opportunità, ma sono state, perlomeno, percepite. Con grande lealtà, pur rallentando nell'ultima settimana, ho sostenuto il programma e il progetto dei comitati, convito che la piattaforma e le proposte fossero quanto di più avanzato possibile per un'alternativa civica e solidale che abbracciasse tutto il territorio, dalla piana, al capoluogo, fino alla collina e alla montagna. Non mi sono candidato in prima persona, perchè ritenevo e ritengo che chi è impegnato in attività di rappresentanza sociale, pur in tutt'altri luoghi, e senza incompatibilità formali, debba fermarsi fino ad un certo punto. Ma ho fatto una scelta di campo, molto chiara. Nessuna ambizione personale, nessuna rivalsa, solo il desiderio di contribuire ad una prospettiva partecipata e programmaticamente orientata di cambiamento in primis per le generazioni future. Come ho scritto a chi ha guidato questo percorso prima che fossero noti i risultati, purtroppo non si è stati capaci di aprirsi davvero alla città, di superare logiche settarie, di essere esempio e testimonianza, politica, etica ed organizzativa, di coerenza tra fatti, comportamenti e valori. Il disastro organizzativo e politico di questa esperienza che aveva tante potenzialità, tante energie e persone positive al proprio interno, non può essere ascritto solo alla candidata sindaco. Ginevra Lombardi ha una grande preparazione e competenza e, potenzialmente, una forza, una visione dirompente. Purtroppo questa grande forza profonda, è annegata in un progetto politico collettivo viziato dall'indecisione e dal caos permanenti, nella mancanza di coraggio, nello scarico delle responsabilità, nel sentirsi, troppo spesso al centro di chi sa quali manovre e boicottaggi, anche dell'informazione. Chi si propone di trasformare il metodo dell'amministrazione pubblica non può passare da un caos organizzativo e politico a momenti di dirigismo senza appello, non può ondeggiare continuamente sulle scelte di fondo da fare, rimandando continuamente e spesso contraddicendo i momenti decisionali e di scelta. Uno per tutti: arrivare ad un passo dall'accordo con Sinistra Italiana e Possibile, partecipando con un intervento appassionato al congresso provinciale del primo di questi partiti, e poi far dirigere la campagna elettorale da persone candidate, a destra, in altri comuni che ora, ossessivamente e pubblicamente chiedono di appoggiare Alessandro Tomasi e la sua coalizione di destra-centro. Guardando avanti non so quale continuità la città possa aspettarsi da questo esperimento purtroppo fallito. Pistoia, come la mia Parma nel 1998, ha bisogno come il pane di cambiamenti radicali e di offrire la possibilità reale di una democrazia locale dell'alternanza che tagli le ragnatele di un potere cittadino sempre uguale a se stesso da decenni. Può darsi, visto il caos, che ha contraddistinto in generale queste elezioni amministrative che chi vinca il 25 giugno, specialmente se sarà una replica e non una novità, possa non riuscire nemmeno portare a termine un mandato di cinque anni, annegando nelle proprie aperte contraddizioni. Occorre, di nuovo, fare come a Padova. Allargare il campo, compiere scelte di fondo e di valore prima e non durante e dopo il momento elettorale, non chiudersi in un antipatico microgruppo dei migliori e degli illuminati, lamentandosi di quanto sia "cattivo" il sistema. Sporcarsi positivamente le mani per un territorio e una città bellissima che, comunque vada il 25 giugno, attenderà ancora per essere "politicamente" davvero "liberata".
Francesco Lauria

domenica 11 giugno 2017

"E SE PARLASSIMO 
UN PO' DI POLITICA?" 
L'11 GIUGNO E SOPRATTUTTO... IL 12.




Probabilmente, per i miei pochi lettori, questo titolo fa un po' sorridere.

Sono uno che ne parla spessissimo. 
Certo è che, pur con toni a volte populisti e superficiali, si è ripreso, anche tra i giovani, a parlare di politica.
Non è nemmeno vero che i giovani europei siano solo attratti da politiche di "destra", dimostrazione ne è il loro ruolo nelle ultime elezioni francesi e britanniche, oltre che nei referendum sulla Brexit e costituzionale italiano (sì, per me, il no dei giovani italiani in quella occasione è stato prevalentemente di "sinistra").
Viviamo in un tempo in cui, fortemente, ci sembra di aver perso un contatto reale con le dinamiche di potere e di governo, in Italia sono passati sedici anni dall'ultima volta in cui abbiamo avuto una voce in capitolo reale sulla scelta dei nostri parlamentari.
Il terrorismo ci spinge, poi, sotto il gioco dei "governi della paura", e dello "stato di eccezione permanente" che, inaugurato di Bush Jr dopo l'11 settembre con il Patrioct Act, comprime i diritti politici, civili, economici, senza per questo rendere più sicure le nostre società.
In questo contesto, come scrive Ota de Leonardis, commentando gli scritti interessantissimi di Arjun Appadurai, in particolare, in quello che chiamavamo "occidente", abbiamo perso la capacità di aspirare.
Abbiamo troppo spesso perduto la capacità di "aspirare" e di rigenerare le democrazia autotrasformandoci da cittadini a consumatori accettando che ciò che ci sta intorno, divenisse esclusivamente "merce".
Insomma, le aspirazioni, tendono ad essere giustificate solo se sono guidate dal mercato turboliberista e se, come scrive l'antropologo indiano, sono "ragionevolmente compatibili con il dominio".
La crisi, in rapporto con il potere sempre più forte delle grandi imprese multinazionali che, perseguendo i propri interessi, interferiscono sempre di più nei processi democratici, è un problema, scrive in questo caso Colin Crouch, non solo per la democrazia, ma anche, soprattutto, e un po' paradossalmente, per il mercato.




Così, quando in queste settimane ho avuto modo di confrontarmi con situazioni di disagio e marginalità, mi è stato chiaro, con grande forza, che il problema è proprio questa mancanza di aspirazioni. Aspirazioni che, invece, nutrono la democrazia: la stessa capacità di aspirare è, per i poveri, la premessa per riconoscere la propria condizione, per prendere la parola, per protestare e federarsi, per cambiare la propria vita.

Forse, in parte, sta qui la spiegazione del perchè la crisi non abbia sconfitto il neoliberismo, ma lo abbia incredibilmente rafforzato, facendoci soggiacere al "potere dei giganti".
Era inevitabile, ma uno degli aspetti più deludenti di questa campagna elettorale per il comune di Pistoia, è stato l'estremo provincialismo delle proposte dei candidati, quasi come se Pistoia fosse un'isola indipendente e non un tassello di politiche ben più ampie, anche di dimensione globale.
In questi mesi abbiamo assistito anche alle sedi elettorali e dei movimenti "temporanee", un po' come gli outlet che aprono per una sola stagione, vendendo grandi promesse e a pochissimo prezzo, ma comprimendo certamente la forza lavoro e la qualità della produzione e, magari, mascherando proposte di passate stagioni, riverniciandole.
Quello che mi ha colpito, sinceramente, è stata una campagna in gran parte individuale, delle centinaia di candidati in campo, spesso inseriti in liste in cui, a malapena conoscevano gli altri candidati, men che meno il programma nel dettaglio.
Certo, ci sono state eccezioni, almeno parziali, è scorretto fare di tutta un'erba un fascio.
Solo, la vera sfida, attraversando l'11 giugno, passa per il 12.
Il giorno, al di là del probabile ballottaggio, in cui gran parte delle sedi "temporary" verranno smantellate e torneranno ad essere fondi sfitti, vittime della crisi e della mega distrubuzione commerciale.
E' dal 12 giugno che, con un proposta che metta insieme nuovo mutualismo, ricostruzione paziente e non identitaria di comunità, si potrà tutti insieme allenarci a ricominciare ad aspirare e, per dirla alla Levinas, a ricominciare a "scegliere davvero di respirare".
Intanto, scegliamo bene, tra chi, almeno, ha provato, certo con limiti e mancanze, non lo nego, a iniziare, tra mille difficoltà, questo percorso.

Francesco Lauria

giovedì 8 giugno 2017

PALOMAR E LA PISTOIA DI BERTINELLI: 
QUEL CAMPANILE CHE SI ALLUNGA
PIU' DEL NASO DI PINOCCHIO


L'associazione Palomar è un po' il fiore all'occhiello di Samuele Bertinelli.
Durante gli anni di esilio dell'ultimo mandato Berti è stato lo strumento che ha coagulato intorno al giovane libraio, caduto all'epoca provvisoriamente un po' in disgrazia, un mondo di ambito intellettuale raffinato, una sorta di club/salotto dei "migliori".
Intendiamoci, in una città non ricchissima di centri culturali, Palomar poteva essere e, forse per un po' è stata, anche una buona idea.
Parecchi vi hanno gravitato intorno, anche tra coloro che oggi sono lontanissimi dal sindaco in carica.
Già dal 2012 è stato però evidente di come si trattasse di uno strumento totalmente funzionale e privo di autonomia, senza ambizioni particolari se non quella di essere un punto di appoggio per il sindaco.
Negli ultimi mesi essere cooptati nel comitato direttivo dell'Associazione ha significato appunto essere ammessi nel club, in quel "micco magico", se possiamo coniare questa nuova espressione, frutto di un contesto, in cui, comunque, è il primo cittadino a sentirsi di gran lunga il l'alfa e l'omega di ogni cosa.
Così, leggendo uno degli ultimi appelli al voto di Samuele Bertinelli, molto convinto di sè come al solito: «Per Pistoia vogliamo proseguire nel cambiamento. Insieme a tutti coloro che lo vorranno. Anche per tutti gli altri»  mi è tornato alla mente l'ultimo numero, del giornale di Palomar, il numero 6, semiclandestino, non pubblicato, a differenza degli altri, sul web.
E' un solo foglio, di dimensioni enormi come sempre, che contiene nel retro un raffinatissimo appello di intellettuali (più alcuni aggregati, direi non ascrivibili alla categoria, tipo Rosalia Billero) che, con tono aulicamente poetico, si rivolgono al popolo pistoiese con un esemplificativo: "Guardami, io sono la città".
Ma è l'iconografia del fronte del giornale a parlare, ancora di più, per immagini.
Un enorme campanile del Duomo di Pistoia, allungatissimo oltre le nuvole del cielo: è questa l'immagine rappresentata nella copertina.
Una sorta di mix tra il lungo naso di Pinocchio e, forse, allusione implicita ad altri, più volgari simboli di allungamenti.
E' quasi fin troppo agevole far correre il parallelismo tra le tante "bugie" propagandate dall'amministrazione uscente e il clima pseudo intellettualoide da "migliori" del mondo di Palomar.
Equivocando Calvino e quel bisogno di conoscenza evocato dal titolo della pubblicazione, un bisogno che, teoricamente, parte dai dettagli, appare inevitabile nel far cogliere nel programma per i prossimi anni del sindaco, una reiterata, noncurante, propensione alla promessa per la promessa.
Senza limiti e un minimo di collegamento con quanto (non) realizzato nei cinque anni del deludente primo mandato.
Un risultato questa prima del giornale bertinelliano l'ha raggiunto.
Ha ravvicinato una certa visione di Pistoia alla Valdinievole, più precisamente a Collodi, il paese di Pinocchio, nonostante la proposta illusoria e strumentale di Samuele Bertinelli del mega comune unico che sancirebbe la definitiva separazione Pistoia - Montecatini, con un largo fossato all'altezza del Serravalle.
Insomma Palomar N°6, con quel campanile che si allunga e, addirittura, sembra oltrepassare il cielo e le nuvole senza nemmeno esserne sfiorato, pare davvero essere un prodotto esemplificativo di una  non entusiasmante stagione.
Starà ai pistoiesi, l'11 giugno, decidere se si tratti di una stagione ancora attuale o destinata ad un mesto e probabilmente meritato tramonto, con un crollo simbolico di un'immagine, per fortuna irreale, che sembra accostare, un po' blasfemamente e certamente falsamente la bella e proporzionata torre campanaria del Duomo di Pistoia a quella di Babele.

Francesco Lauria

lunedì 5 giugno 2017

PISTOIA, I FIUMI E IL MALDIFIUME.


No, Maldifiume non è un sentimento negativo.
Scrive Simona Baldanzi: "Ho il Maldifiume, la bellezza da vertigine, lo sbandamento da trasformazione: sento come una voce che mi dice: vai a passo d'acqua".
Pensavo proprio a questo bellissimo libro mentre ieri ascoltavo Enrico Guastini e Misha Vivarelli, due giovani appassionati ecologisti, di grande preparazione scientifica, raccontare la vicenda del Bacino di Gello, delle casse di espansione ai Laghi Primavera, risalendo ancora indietro, fino allo sbancamento subito dall'Ombrone negli anni sessanta, al fine di costruire l'autostrada A11, con conseguente innalzamento della falda e allagamenti in gran parte di Pistoia. Maldifiume: un tragitto uscito dalla penna di una donna dolce e pungente, appassionata della natura come del lavoro.
Nel racconto di Simona, un viaggio lento, a passo d'acqua, lungo tutto il percorso del fiume Arno, ho imparato a specchiarmi e a leggere, con il suo metodo, i fiumi e i torrenti della città in cui vivo: l'Ombrone e il Vincio prima di tutti gli altri.
E' vero i fiumi di Pistoia sono a volte difficilmente controllabili, non è semplice nella loro volatilità affiancarli ed è diverso viverli nella parte Nord e Ovest della città, rispetto alla Piana, a quel territorio che, nella zona dei vivai, spesso si trova sotto il pelo di quell'acqua dolce, il cui percorso è descritto nell'incedere lento e poetico, nello spazio e nel tempo, nei volti delle persone e nei solchi vissuti dei luoghi.
Forse è vero quello che scrive John Steinbeck in Furore e che Simona Baldanzi riporta all'inizio del suo libro: "Per l'uomo la vita è fatta di salti: se nasce un figlio e muore tuo padre, per l'uomo è un salto: se ti compri la terra e ti perdi la terra, per l'uomo è un salto. Per la donna invece è tutto come un fiume, che ogni tanto c'è un mulinello, ogni tanto c'è una secca, ma l'acqua continua a scorrere, va sempre dritta per la sua strada. Per la donna è così ch'è fatta la vita. La gente non muore mai fino in fondo. La gente continua come il fiume, magari cambia un po', ma non finisce mai."
Di certo nei progetti degli ultimi dieci anni rispetto ai bacini di espansione nel territorio di Pistoia, rispetto ai fiumi, ai laghi, non pare molto preso in considerazione l'insegnamento della memoria e della storia, manca la capacità di vivere e vedere, il fiume, non solo di governarlo, addomesticarlo, usarlo.
Non tutto si può mettere in un barattolo. Si è vero, ci racconta Simona, questa volta sul Rio Grande, in Uruguay, gli emigranti italiani erano famosi per questo.
Ma un fiume non è una conserva, una confettura; è "acqua che si muove e si mischia, restia a barriere e confini, che pare ingovernabile eppure diventa metafora della politica: una vena scoperta a cui spesso abbiamo dato le spalle, ma che scava, cambia, pulsa dentro all'intimità di donne e uomini".


Il fiume è un luogo anche per i bambini e i ragazzi, attrae e spaventa, unisce e divide, ti fa giocare, ma a volte non perdona.

Ce lo ricorda Tiziano Terzani ne "La fine è il mio inizio": « A quel tempo l'Orsigna era ancora piena di gente. La guerra era appena finita e gli uomini facevano i boscaioli nelle montagne di là del fiume. Facevano cose incredibili! Legavano un cavo di ferro nella montagna di fronte, poi a spalla, attraversando il fiume, lo portavano da questa parte, lo legavano in piazza, lo mettevano in tensione e dall'altro versante facevano partire i carichi di legna attaccati ad un uncino. Arrivavano a velocità spaventosa ed andavano a sbattere contro un copertone. A volte quei pazzi ci si legavano loro stessi. Lo ricordo come se fosse ora. (...) una volta uno si distrasse fra un carico e l'altro e finì schiacciato in piazza. »...."

Le storie e la storia non stanno ferme per farsi raccontare, si muovono insieme a noi.
Comprendere cosa è diventato il fiume, cosa è diventata l'acqua dolce che spesso nemmeno vediamo, nascosta, almeno nelle città, dai blocchi di cemento e da ponti sotto i quali quasi nessuno si spinge più, è una grande sfida. 
Di certo il fiume può essere abitato, vissuto, senza essere stravolto, senza ucciderne la vita, la libertà naturale.
Non so se la definizione giusta è quella che, in questa campagna elettorale, sulla scorta dell'esperienza di alcune città europee sia quella del "contratto di fiume".
Forse più semplicemente occorrerebbe un "patto dell'acqua dolce".
Un impegno condiviso, che potrebbe basarsi su una "carta dell'acqua di Pistoia" in cui cittadini, associazioni, istituzioni, università, scuole, a partire da quelle dell'infanzia, si impegnino a prendersi cura dei fiumi e dei laghi, a monitorare con trasparenza il loro inquinamento e il loro utilizzo, lo stato idrogeologico, senza dimenticare gli ecosistemi che vi si collegano, la fauna e la flora che ad essi sono collegate
Si tratta di una bella sfida per chi si mette in viaggio, ma anche per chi crede ancora nella politica.
Una politica che non stravolge l'ambiente ed il paesaggio, non cancella la memoria e non stravolge lo spazio e non annega nel presente senza pensare al futuro.
Una politica che non pretenda di deviare, violentare il corso continuo della vita, che non viva di soli "salti" e di finanziamenti strumentali da impiegare e ricercare, in un vortice in cui si perde l'orizzonte di senso, in cui si perde il fluire della corrente.
Ritrovare la bellezza da vertigine e lo sbandamento da trasformazione.
Una trasformazione-rivoluzione che non è un salto violento, ma un percorso profondo. 
Un passo d'acqua che non finisce mai e che ricomincia ogni giorno, in ogni fiume.
In bocca all'acqua!

Francesco Lauria