giovedì 27 luglio 2017


 "Tornare" a Camaldoli
In memoria viva di GIOVANNI BIANCHI


A pochi giorni dalla scomparsa di una figura davvero significativa, in assoluto, ma anche a livello personale, come Giovanni Bianchi, già presidente n.le delle ACLI, ripubblico una nostra conversazione, tuttora attualissima, di fine 2013, contenuta nella rivista della FNP Cisl: "Contromano".
Bianchi era stato da un anno nominato presidente nazionale dell'APC, l'associazione nazionale dei partigiani cristiani, cui, negli anni cinquanta, dette un significativo impulso, nel parmense, anche mio nonno: Anesio Finardi, partigiano della bassa parmense, scomparso prematuramente nel 1960. 
La prosa bellissima di Giovanni è visibile in tutto il testo, ma voglio fare risonanza della conclusione: 
"Quanto alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare a fare esperienze, sapendo che non tutte  andranno a  buon  fine, ma senza il coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del cristiano chiamato a perdere la propria vita".
Proprio mentre la rivista andava in stampa, scomparve prematuramente, purtroppo, la figlia di Bianchi, Sara, giornalista apprezzata del Sole 24 ore. Fermammo l'uscita del fascicolo per inserire un breve omaggio. Giovanni, negli ultimi anni, contribuì a istituire un premio in memoria della figlia insieme al Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

"TORNARE" A CAMALDOLI

Nato a Sesto San Giovanni nel 1939, ha fondato alla fine degli anni sessanta a Milano
con Sandro Antoniazzi e Bruno Manghi, il “Centro Operaio”.
Dal 1987 dirige la rivista di spiritualità e politica “Bailamme”. Presidente Nazionale della Acli dal 1987 al 1994 è stato Deputato dal 1994 al 2006. Dal 2012 ha assunto la carica di Presidente dell’associazione Partigiani Cristiani.

Lauria: Incontriamo Giovanni Bianchi a circa un anno dalla sua elezione a Presidente dell’Associazione Partigiani Cristiani. E’ il primo presidente che, per ragioni di età, non ha preso parte direttamente alla Resistenza. E’ naturale chiedergli come sta affrontando questo impegno così simbolicamente significativo.
Bianchi: E’ la politica e meglio ancora la cultura politica che tiene insieme una grande associazione popolare. Perché la grande politica (e non la tattica o le convenienze) le conferisce una radice, un destino e quindi una missione. Cultura politica non significa idee che passa- no da libro a libro, ma il vissuto collettivo su un territorio e dentro una storia della quale si ha coscienza perché si continua a farne memoria. Quando si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di passare dal vecchio al vuoto.
Guidare una grande associazione confrontandosi con   le aggressioni dell’anagrafe significa soprattutto tenere culturalmente e concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni. Chi ha il coraggio della discontinuità deve avere acuto il senso della storia: la grande politica è in grado di andare anche “contro” la storia, perché la conosce, la rispetta, sa che è indispensabile miniera nella quale è bene continuare a discendere.
Lauria: Una delle sue prime proposte è partita dai giovani: creare gruppi di riflessione intergenerazionali su “Resistenza e Costituzione…
Bianchi: Una grande epopea popolare come la Resistenza rischia la noia delle liturgie ripetute. I protagonisti di allora sono tutti da tempo avviati verso l’altra sponda. I superstiti hanno tenuto e tengono ancora alta la fiaccola, ma i più baldi hanno superato gli ottantacinque anni.
L’idea va letta in questa prospettiva: messa in comune di storie ed energie con la possibilità concreta di aprire alle nuove generazioni. Fu Dossetti a indicare il legame profondo tra Resistenza e Costituzione. Nel senso che  il patrimonio antropologico e ideale della Resistenza trova sbocco e architettura nella “più bella Costituzione del mondo”. La Costituzione non è leggibile infatti (si pensa all’articolo 11 e a quel verbo inedito che recita “l’Italia ripudia la guerra”) senza la pressione della seconda guerra mondiale e la spinta di ideale delle Resistenze europee.
Sarebbe sufficiente una rilettura dei testi poetici e teatrali di padre Turoldo a ricreare una irripetibile atmosfera. Possiamo risalire all’epopea resistenziale, connubio di lotta armata sui monti e trasformazione delle coscienze nelle città, a partire dalla codificazione degli articoli forgiati alla Costituente.
L’idea ha cominciato a funzionare. Il ponte tra le gene- razioni vede la costruzione delle prime campate, pur lavorando con i “mezzi poveri” consigliati da Giuseppe Lazzati.
Lauria: Il 2013 è anche il 70° anniversario del Codice di Camaldoli, pietra miliare del contributo fondativo, cristianamente ispirato, alla nostra Repubblica. L’Apc ha dedicato un convegno e riflessioni a questo avvenimento. Una scelta non casuale, ma con quale attualità? 
Bianchi: Camaldoli è il momento fondante della politica di ispirazione cristiana del dopoguerra. Una tappa di quello che definiamo il cattolicesimo democratico. Da dove discende lo sguardo lungo del 1943? Perché si fu in grado di evitare quel negozio continuo che impoverirà le politiche del dopoguerra? C’è di mezzo ovviamente l’inevitabile durezza delle cose che allarga lo spazio tra il progetto pensato e l’agenda del fare. Una distanza non minore di quella odierna, in un Paese da ricostruire a partire dalle macerie e in una confusione non inferiore a quella attuale. Il problema del pane quotidiano, del riscaldamento, dell’abitare: per quarantacinque milioni di italiani. Una durissima lotta interna che oppone i resistenti ai nostalgici del regime fascista. Un quadro internazionale destinato alla lunga guerra fredda sotto minaccia della bomba atomica.
Eppure non sono divorati dalla sola ansia del fare. Compitano lungamente un Codice e non un’agenda. Anche il linguaggio segnala un costume dove le virtù del politico sono più prossime al lieto annunzio ai poveri del Nazareno, più parrocchiali, e meno segnate dal mostro mite dell’immagine e dai rapporti con una gerarchia con la quale trattare intorno al tavolo dell’etica i valori “non negoziabili”.
L’interrogativo che ne discende – perché il nostro vuole essere confronto con Camaldoli e non celebrazione da convegno – è quante mani, ivi compresa quella del pensiero unico, abbiano contribuito a scrivere il prontuario delle virtù civiche e politiche del credente dei nostri giorni e dei nostri partiti, laddove insopportabili disuguaglianze vengono legittimate da un prontuario che coniuga merito e bisogno.
Quale allora la molla di Camaldoli? La medesima che Pombeni attribuisce a Dossetti: un’ansia di lettura della storia nel momento del suo farsi, dove l’evento racchiude e suggerisce i “segni dei tempi”, ne indica l’urgenza   e il dovere, riconducendo la cronaca politica ad un’appropriata dimensione profetica. Tornare a Camaldoli implica una ripartenza. Sollecita a estrarne un metodo. 
Lauria: Qualsiasi riflessione sull’impegno cristiano nel sociale non può prescindere dal “vento nuovo” rappresentato da Papa Francesco. Si intravedono davvero segnali di speranza? Con quale concretezza?
Bianchi: La prima enciclica di Papa Francesco consiste nel nome. Il papa gesuita che indica per il discernimento e per la pratica le “periferie esistenziali”. Il cristianesimo ha bisogno di riflettere non soltanto sul rapporto con l’illuminismo, ma sui luoghi che ne sollecitano l’incarnazione e la testimonianza. Non conta quindi soltanto la sistemazione dottrinale, ma la testimonianza sulla quale saremo giudicati in cielo e sulla terra dalle masse degli uomini contemporanei, quella che si sforza di praticare il lieto annunzio ai poveri.
Tornare, come invitava padre Turoldo, “a riprendere i nomi di battaglia, indossare le armi della luce” significa testimoniare, assumerci i rischi della condizione umana in questa complicata fase storica. Anche in Italia, i punti di riferimento non mancano. Da don Tonino Bello al cardinale Martini, a don Luigi Ciotti, per restare tra i presbiteri.
Quanto alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare a fare esperienze, sa- pendo che non tutte  andranno a  buon  fine, ma senza il coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del cristiano chiamato a perdere la propria vita.

Francesco Lauria


Il Codice di Camaldoli
Dal 18 al 24 luglio 1943 un gruppo di intellettuali–laici e religiosi- cattolici si riunì, presso il monastero benedettino di Camaldoli, con l’intento di confrontarsi sul magistero sociale della  Chiesa sui problemi della società, sui  rapporti tra individuo e stato, tra bene comune e libertà individuale.Il 25 luglio e i successivi avvenimenti modificarono il piano di lavoro impedendo altre sessioni di incontro e una più ampia partecipazione; la stesura definitiva fu pertanto affidata a Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Giuseppe Capograssi che la completarono nel 1944; l’opera fu pubblicata nel 1945 con il titolo: “Per la comunità cristiana”, ma è conosciuta come: “Codice di Camaldoli” L’edizione più recente del Codice è stata pubblicata da Edizioni Lavoro nel 2010.

Vedi versione originale dell'intervista:
http://www.centrostudi.cisl.it/approfondimenti/saggi-e-articoli/341-in-ricordo-di-giovanni-bianchi-tornare-a-camaldoli.html

mercoledì 26 luglio 2017

Lo scrigno scomodo dei diari di Bruno Trentin

A dieci anni dalla scomparsa pubblicati i diari del periodo della segreteria generale della Cgil (1988-1994) Articolo su Conquiste del Lavoro del 26 luglio 2017.


Come aprire uno scrigno: prezioso, quanto scomodo.
E’ questa la prima sensazione che si prova leggendo le oltre cinquecento pagine dei diari di Bruno Trentin, recentemente pubblicate da Ediesse, a dieci anni dalla scomparsa del grande intellettuale ed ex segretario Cgil.
Uno scrigno ricco anche di momenti intimi e semplici, come quando il sindacalista si accorge delle piante germogliate nel suo ritiro di Amelia, in cui racconta della fuga dal temporale che sorprende lui e Marie (la moglie Marcelle Padovani) in Corsica, in cui sospende le sue, spesso amare, riflessioni sulla politica e sul sindacato o magari sulla natura del marxismo, per raccontare di una puntata fugace a Sperlonga. Senza dimenticare, ovviamente, le innumerevoli arrampicate in montagna, partendo dalla base di San Candido, che sarà anche il luogo della sua rovinosa caduta in bicicletta che ne determinerà la lunga agonia e poi la morte.
La pubblicazione dei Diari, curata con grande meticolosità e passione da Igino Ariemma, racchiude, integralmente e senza tagli, le ruvide e affascinanti pagine che accompagnano Trentin durante la guida della Cgil, come segretario generale, durante sei anni decisivi e turbinosi sul piano nazionale ed internazionale: dal 1988 al 1994.
Si tratta solo di una parte dei manoscritti conservati, che vanno dal 1977 all’agosto del 2006 (il momento dell’incidente), con l’esclusione del periodo 1999-2001, poiché il quaderno che conteneva gli scritti di questi due anni fu rubato a Trentin mentre era in viaggio a Parigi.
Il periodo pubblicato accompagna gli anni della caduta del comunismo nei paesi dell’Est e, conseguentemente, del crollo e della frantumazione del PCI e della fine, tormentata, viscosa, illusoria, della nostra Prima Repubblica.
Marcelle Marie Padovanì tratteggia, nella sua breve introduzione al testo, gli “anni più difficili” del marito, l’acuta solitudine, accompagnata da tre crisi: politica (all’interno e all’esterno del sindacato) esistenziale (con depressioni ricorrenti), di coppia (poi risolta positivamente).
Ma nei diari, come scrive Padovanì, c’è anche, in un contrasto deflagrante e affascinante, la gioia di vivere, l’esistere nell’arrampicare, un amore sconfinato per la lettura (e, a giudicare dalla mole dei diari, anche per la scrittura) di questo “intellettuale sindacalista”, come lo definisce Ariemma.
Nelle pagine di Trentin ci sono i momenti topici della “concertazione” e i tormentati accordi del luglio del 1992 e del 1993, ci sono viaggi di lavoro e di vita, alcuni poetici e profondissimi, come quelli in Messico ed in Sud Africa, e ci sono domande molto attuali, come quelle scritte a se stesso nel settembre del 1990: “Quale partecipazione? Quali rapporti fra la democrazia economica e l’umanizzazione del lavoro? Quale politica dei redditi: con la centralizzazione e la monetizzazione della contrattazione collettiva o con una politica fiscale manovrata? Quale contrattazione collettiva: su quale contenuti e dove? Quale il rapporto tra la difesa e la promozione del godimento dei diritti individuali e la contrattazione collettiva? Quale periodicità della contrattazione nazionale ? Quale riforma istituzionale? E al servizio di quale governo dell’economia? Quale il posto dell’umanizzazione del lavoro e della riconversione ecologica nella politica economica dello Stato?”
Trentin anticipa e riflette sulle trasformazioni tecnologiche, le collega, spesso amaramente, con la perdita di potere dei lavoratori rispetto al governo dell’organizzazione del lavoro.  Dai temi del lavoro passa spesso alla riflessione sulle diverse nature, diverse vie del socialismo: sono le pagine che accompagnano, in particolare, il massacro di Piazza Tienanmen, con il suo rifiuto endemico della via autoritaria e totalitaria che soffoca la libertà e la democrazia, innanzitutto del lavoro, e il domandarsi come agire per far vivere, invece, “la via libertaria del socialismo, del primato della liberazione del lavoro come nucleo creativo della democrazia”.
Come già accennato, vi è poi tutto il tema della riflessione, amara e tormentata, sul sindacato come soggetto politico, la cui pulsione identitaria risiede nella concretezza del progetto e del programma: quel sindacato dei diritti spesso, anche recentemente,  non ben compreso e misconosciuto, con eccessiva leggerezza e superficialità.
Il complesso delle variegatissime, a volte davvero sorprendenti letture di Trentin, puntigliosamente annotate nel diario, è un tesoro immenso per ricostruire il suo percorso intellettuale e, si direbbe, etico esistenziale, non solo per i saggi, ma anche per le novelle, i romanzi, i racconti, citati spesso in francese.
Uno scrigno da cui attingere, anche criticamente, così come, non è mai tempo perduto ripercorrere il  solco di un uomo assolutamente unico nel panorama politico e sindacale italiano ed europeo.
Un’Europa, quella federata e sociale, che Trentin “ha nel sangue”, che desidera costruire concretamente (e per questo dedica alle burocrazie europee, anche sindacali, affondi durissimi)  e che, come gran parte dei veri costruttori dell’Europa, ha maturato dentro di sé, valicando i confini, praticando la Resistenza, inseguendo le orme di un grande padre: Silvio Trentin.
Gli spunti dei diari sono tantissimi: a partire dalla provocazione, anche per il pensiero di matrice cristiana, dei riferimenti, molto profondi, esigenti, riconoscenti, al personalismo francese.
Sul sindacato ci sono pagine dure e al tempo stesso ancora oggi attuali e interroganti, come la sua risoluta distanza dagli “scimmiottamenti dei partiti politici”, magari con la promozione di iniziative anche in campo legislativo, che possono minare l’autonomia dei soggetti sociali e far rischiare derive corporative.
E’ molto interessante, in tempi come quelli di oggi di disintermediazione ostentata, la sua riflessione su: “nuove regole che contengano nuovi diritti e nuovi doveri” sulla rappresentatività, sulla democraticità interna, sulle iniziative e il radicamento nella società in rapporto ai corpi intermedi.
Appare tuttora illuminante la polemica trentiniana sull’errore sindacale di soffermarsi solo sugli aspetti quantitativi e “salarialisti” della contrattazione collettiva, senza occuparsi sufficientemente della remunerazione della flessibilità, della formazione permanente (altra sua grande e antica intuizione), della professionalità, dell’organizzazione del lavoro. Aspetti di quella “libertà che viene prima” che è il fulcro del messaggio del Trentin di questi e dei successivi anni.
La veemenza delle pagine dei diari è riservata ad un sindacato (a partire dalla Cgil) e ad una politica (a partire dal PCI) che mantengono senso e valore solo se protesi ad un progetto, pur non ideologico, di società e che, invece, Trentin, all’apice almeno apparente della sua influenza sulla scena italiana, vede, con grande sofferenza e rabbia, troppo spesso limitati alle strategie e alle tattiche per l’accesso e la gestione del potere per il potere, in una tragica autoreferenzialità.
Il sindacalista, nella sua riflessione sulla sinistra e sul comunismo, è poi molto duro con il moderatismo falsamente riformista, ma anche con le “liturgie del movimentismo”, in particolare di quelle che predicano la “liberazione dal lavoro e non nel, attraverso, il lavoro”.
Si interroga, a cavallo tra anni ottanta e novanta, sulla “crisi del conflitto di classe” e sul “successo culturale e politico” della restaurazione liberale e conservatrice e disegna il profilo dei “nuovi diritti” come condizione culturale, conoscitiva, progettuale di un necessario cambio di paradigma.
E’ difficile concordare pienamente con Igino Ariemma, quando, in conclusione del suo breve saggio introduttivo, ci parla dei diari come di pagine prevalentemente di speranza.
Quello che traspare, in realtà, è un non contenuto tormento, una mai soddisfatta ricerca, un rigore a volte debordante, anche su se stessi. Sta proprio qui la profondità, la preziosità, l’autenticità scomoda di queste pagine: anche i giudizi che appaiono a volte livorosi e non sempre giustificati, si inseriscono in questo contesto: la ricerca di un’autorealizzazione della persona nella società che è percorso mai finito e mai soddisfatto di liberazione. Un percorso, è vero, non privo di temporanei “disorientamenti d’azzurro” e che termina, almeno nei diari pubblicati, con uno sguardo al cielo tra i monti: un tempo che tiene e che, almeno per un momento, ci lascia l’immagine finale di un Trentin: “più sereno, più fiducioso”.
Con questa provvisoria pacatezza, le pagine, solo per ora, si chiudono.

Francesco Lauria

Leggi la pagina su Conquiste del Lavoro:
http://www.centrostudi.cisl.it/attachments/article/340/diaritrentinconquiste26luglio.pdf

Messaggio ricevuto da Marcelle Marie Padovani il 27 luglio 2017: 

"Francesco Lauria, ho letto con grandissimo piacere il primo articolo scritto dopo la pubblicazione dei Diari che riveli una conoscenza complessiva e complessa del loro autore . Grazie.
Volevo che si sapesse e per questo mi sono permessa questo messaggio

Cari saluti 

Marcelle Padovani"

domenica 23 luglio 2017

“Aprire uno scrigno scomodo”: questa sera, a Fiesole, un dialogo da non perdere sui Diari di BrunoTrentin


Chissà se e come avrebbe descritto nel suo diario Bruno Trentin l’alba di oggi, all’Elba.
Il tentativo di scrivere ascoltando le onde vicine e inquiete del mare, lo scoprire, insieme ad una luce estiva insolitamente opaca, l’eco di una pioggia, di cui il sonno, pur leggero, non si era accorto.
Il diario di Trentin è pieno di questi momenti, in cui si accorge delle piante che hanno germogliato nel suo ritiro di Amelia, in cui racconta della fuga dal temporale che sorprende lui e Marie (Marcelle Padovani) in Corsica, in cui sospende le sue, spesso amare, riflessioni sulla politica e sul sindacato o magari sulla natura del marxismo, per raccontare di una fuga fugace a Sperlonga. Senza dimenticare, ovviamente, le sue innumerevoli arrampicate in montagna, partendo dalla base di San Candido, che sarà anche il luogo della sua rovinosa caduta in bicicletta che ne determinerà la lunga agonia e poi la morte, esattamente dieci anni fa.
Nonostante diverse ore rubate a diverse notti, non sono riuscito, come speravo, ad ultimare per la giornata di oggi l’articolo, concordato con Conquiste del Lavoro, in cui provare a tratteggiare qualcuna delle innumerevoli, interessantissime e mai comode chiavi di lettura che i Diari intimi e personali di Bruno Trentin ci possono fornire.
La pubblicazione di Ediesse, curata da Igino Ariemma, racchiude, integralmente e senza tagli, le ruvide e affascinanti pagine che accompagnano Trentin durante la sua guida, come segretario generale, della Cgil, insieme a sei anni decisivi e turbinosi sul piano nazionale ed internazionale: dal 1988 al 1994.
Gli anni, anche, della caduta del comunismo nei paesi dell’Est e, conseguentemente, del crollo e della frantumazione del PCI e della fine, tormentata, viscosa, illusoria, della nostra Prima Repubblica.
Marcelle Marie Padovani , la moglie di Trentin, parla nella sua breve introduzione degli  “anni più difficili”, dell’acuta solitudine, accompagnata da tre crisi: politica (all’interno e all’esterno del sindacato) esistenziale (con depressioni ricorrenti), di coppia (poi risolta positivamente).
Ma nei diari, come scrive Marie, c’è anche, in un contrasto deflagrante e affascinante, la gioia di vivere, l’esistere nell’arrampicare, un amore sconfinato per la lettura (e, a giudicare dalla mole dei diari, anche per la scrittura) di questo “intellettuale sindacalista”, come lo definisce Ariemma.
Nel diario ci sono i momenti topici della “concertazione” e i tormentati accordi del luglio del 1992 e del 1993, ci sono viaggi di lavoro e di vita, alcuni poetici e profondissimi, come quelli in Messico ed in Sud Africa, e ci sono domande molto attuali, come quelle scritte a se stesso nel settembre del 1990: “Quale partecipazione? Quali rapporti fra la democrazia economica e l’umanizzazione del lavoro? Quale politica dei redditi: con la centralizzazione e la monetizzazione della contrattazione collettiva o con una politica fiscale manovrata? Quale contrattazione collettiva: su quale contenuti e dove? Quale il rapporto tra la difesa e la promozione del godimento dei diritti individuali e la contrattazione collettiva? Quale periodicità della contrattazione nazionale ? Quale riforma istituzionale? E al servizio di quale governo dell’economia? Quale il posto dell’umanizzazione del lavoro e della riconversione ecologica nella politica economica dello Stato?”
Trentin anticipa e riflette sulle trasformazioni tecnologiche, le collega, spesso amaramente, con la perdita di potere rispetto al governo dell’organizzazione del lavoro.  Dai temi del lavoro passa spesso alla riflessione sulle diverse nature, diverse vie del socialismo: sono le pagine che accompagnano, in particolare, il massacro di Piazza Tienanmen, con il rifiuto endemico della via autoritaria e totalitaria che soffoca la libertà e la democrazia, innanzitutto del lavoro, e il domandarsi come agire per far vivere, invece, “la via libertaria, del primato della liberazione del lavoro come nucleo creativo della democrazia”.
Sta qui anche il nucleo della riflessione amara e tormentata sul sindacato come soggetto politico la cui pulsione identitaria sta nella concretezza del progetto e del programma: quel sindacato dei diritti, spesso, anche recentemente,  non ben compreso e misconosciuto con eccessiva leggerezza e superficialità.
Lo scrigno delle letture di Trentin, puntigliosamente annotate nel diario, è un tesoro immenso per ricostruire il suo percorso intellettuale e, direi, etico esistenziale, non solo per i saggi, ma anche per le novelle, i romanzi, i racconti.
Uno scrigno da cui attingere, anche criticamente, così come, non è mai tempo perduto ripercorrere il  solco di un uomo assolutamente unico nel panorama politico e sindacale italiano ed europeo.
Un’Europa, quella federata e sociale, che Trentin ha nel sangue, che desidera costruire concretamente (e per questo dedica alle burocrazie europee, anche sindacali, affondi durissimi)  e che, come gran parte dei veri costruttori dell’Europa, ha maturato dentro di sé, valicando i confini, praticando la Resistenza,  inseguendo le orme di un grande padre: Silvio Trentin.
Gli spunti sul diario sarebbero ancora tantissimi: a partire dalla provocazione, anche per il pensiero di matrice cristiana, dei suoi riferimenti, molto profondi ed esigenti,  al personalismo francese.
Di tutto questo si discuterà questa sera, alla festa dell’Unità di Fiesole, in un  importante dibattito organizzato dalla Libreria Alzaia e da Enrico Ricci, che fa seguito, tra le altre, alle preziose serate di riflessione sulle donne elette alla Costituente e su Don Lorenzo Milani.
Il confronto si svolgerà lunedì 24 luglio alle 21, presso l’area verde di Montececeri, a Fiesole, con Igino Ariemma, curato dei Diari, Guido Sacconi e la mia amica “trentiniana” Ilaria Lani, della Cgil di Firenze.

Francesco Lauria

venerdì 21 luglio 2017


LA FERITA E LA RADICE. Genova 2001: una generazione "perduta" alla ricerca di alleanze e di futuro


Ho scoperto, recentemente, leggendo il supplemento culturale del Corriere della Sera, che la mia "generazione", quella dei nati tra il 1977 e il 1983, è una generazione di passaggio.
Saremmo gli "Xennial", l'ultima generazione che ricorda bene il telefono fisso, il mondo prima della rivoluzione digitale, ma che poi si è comunque adattata al mondo che è cambiato.
Una generazione di mezzo, insomma.
Per chi ha vissuto l'impegno politico e sociale in prima persona, fin da ragazzo, la mia è anche e soprattutto la: "generazione di Genova".
Ho provato, anche quest'anno, a sottrarmi alla retorica degli anniversari, ma dopo aver letto il bello ed evocativo articolo di Carlo Bonini su Repubblica di un paio di giorni fa, quello in cui l'attuale capo della Polizia Gabrielli ha parlato, rispetto all'ordine pubblico e alle torture di Bolzaneto e della Diaz, di "catastrofe", proprio non ci sono riuscito.
Bonini inizia il suo pezzo così: "Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare". 
Questo assunto, se forse non è sempre valido nemmeno nei rapporti interpersonali o di coppia, certamente ci interroga rispetto a Genova 2001, un "ricordo ibernato, con una ferita che torna a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria".
Sedici anni sono passati da una grande speranza e da una grande delusione.
L’immagine che più mi è rimasta nella mente e che fa capolino più spesso, non è quella della paura, della mancanza del respiro, del sangue vivo vicino a me, è il momento in cui passai di fianco alla Chiesa multicolore sul lungomare di Genova, cosparsa di scritte multilingue sulla remissione del debito ai paesi poveri, qualche minuto prima che si scatenasse l'inferno.
Oppure, ancora prima, ricordo come fossi oggi l'istante della mia scelta di esserci, mentre molti, anche dalla mia città, rinunciavano e tornavano indietro. 
Uscito a mezzanotte dai cancelli della fabbrica metalmeccanica a cavallo tra Parma e Reggio Emilia, in cui svolgevo per i mesi estivi un, per me studente universitario professorino, duro lavoro operaio, decisi di tornare a Genova (ero stato lì per la manifestazione dei migranti pochi giorni prima). 
Partii alle cinque del mattino con il pulmann della Rete Lilliput, proprio dopo aver saputo, alla radio, della: "morte di un ragazzo".
Come ha sottolineato una testimone diretta di quei giorni, Ilaria Lani: “Doveva essere la mia prima grande manifestazione e mi ritrovai in campo di guerra. Eppure i giorni che avevano preceduto il 20 luglio erano stati bellissimi. La manifestazione dei migranti e il concerto di Manu Chao. Le nostre voci dal “Public Forum” echeggiavano in una atmosfera strana, insolitamente silenziosa, sospesa, eterna. Il mondo sembrava nostro.
Riconversione ambientale, migranti, pace, disarmo, acqua, no-ogm, partecipazione e democrazia, cancella il debito, saperi, diritti globali, impronta ecologica e sociale. Qualcuno disse in un forum: “Questa è la prima generazione che non chiede nulla per se stessa”.
La nostra generazione di Genova era enormemente variegata, direi molteplice, non priva di profonde contraddizioni, ma è vero, non c’era nulla di rivendicativo per noi, chiedevamo “solo” un altro mondo possibile.
Continua Ilaria Lani: “la nostra era una generazione che si era potuta permettere il lusso di sognare, in maniera del tutto innocente, ma fu svegliata a suon di manganelli. Quello fu il nostro vero primo rapporto con il potere e la sua violenza, ed eravamo soli, senza protezioni, senza adulti, senza riferimenti, senza partiti e sindacato. Da allora abbiamo continuato a sognare e costruire l’altro mondo possibile, ma abbiamo sempre tenuto a debita distanza il potere, in tutte le sue forme più o meno istituzionalizzate”.
In realtà, personalmente, ricordo la mia fuga, insieme ai componenti della Rete Lilluput di Parma, ricordo un sacerdote missionario saveriano sulla sedia a rotelle e il fazzoletto e il limone in bocca, e quel mio trovare rifugio, casualmente, dietro la bandiera della Cisl di Vicenza, un sindacato che, anni dopo, avrei cominciato a frequentare, tra la durezza delle concerie di Arzignano e la conoscenza di persone visionarie, quanto fraternamente amiche.
Di lì a poco ci sarebbe stato l’11 settembre, poi la crisi globale e oggi un mondo, sempre più “terrorizzato” in cui è in crisi prima di tutto la “percezione dell’avvenire”.
Ora il ricordo potrebbe prendere una piega un po’ scontata.
Rimpiangere un mondo che non è più e al tempo stesso che non è stato.
Provo a esorcizzarlo ricordando  una frase di una grande figura, Paolo Giuntella: “meno lagne e più Soul”.
Mi chiedo se le generazioni più giovani della nostra, i reduci "xennial" come ci chiama il Corriere nazionale, che abbiamo tra i trenta e i quarant’anni, quelle cresciute nel dibattito, a volte un po’ stantio, tra precarietà e crisi globale, possano comprendere questi sentimenti, non avendo conosciuto, forse, la nostra “speranza”, ma nemmeno la nostra conseguente delusione.
Mi chiedo se sia possibile un'alleanza nuova, pur in un contesto così frantumato che disperde anche le più semplici solidarietà generazionali di un tempo.
Insomma, se allora sognavamo di "cambiare il mondo senza prendere il potere", oggi che cosa sogniamo? Oggi, di fronte alla crisi dell’Unione Europea, all’ascesa di Trump, all'esplodere del tema delle migrazioni e del cambiamento climatico, alla perdita di centralità politica della salvaguardia del pianeta e della lotta alle diseguaglianze (tra Sud e Nord del mondo, ma anche all’interno delle periferie del Pianeta e nei nostri contesti “occidentali”)?
Oggi che siamo passati dalle menzogne della guerra umanitaria, alla sorpresa della guerra asimmetrica, alla apparentemente inevitabile terza guerra mondiale a pezzetti e al tempo del terrorismo e dello stato (permanente?) di emergenza e di eccezione?
Rispetto ai tempi di Genova due sono le grandi fratture interrotte e sanguinanti da ricomporre.
Il concetto di rete, di unità nella diversità dei soggetti sociali che si ostinano a costruire dal basso “un altro mondo possibile e necessario” e il tema di continuare a credere in una radicale prospettiva di cambiamento che non sia regressivo e non rappresenti la vittoria finale del turbo capitalismo nichilista, sia esso nella versione globalizzata sia esso nella rampante e illusoria versione neo-isolazionista.
Per dirla con Slavoj Zizek (“La Nuova lotta di classe, Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini”, 2016) se “alle porte del nostro castello di declinante benessere bussano le miserie del mondo; i suoi conflitti esplodono nelle nostre città, come leggere questa nuova emergenza continua, il Nuovo Disordine Mondiale?” Pur nella sua provocatorietà Zizek ci ammonisce sul fatto che non ci possiamo limitare “a rispettare gli altri”, ma occorre offrire “una lotta, un orizzonte comune”.
E’ proprio questo che rimette in gioco ciò che abbiamo creduto e costruito, non solo nel Nord del Mondo, noi come generazione di Genova, ma anche di Porto Alegre.
Come scrive Ilaria Lani: “avevamo ragione noi sulle ingiustizie che governano questo mondo, allora come oggi”.
E allora da dove ripartire?
Qui, dai nodi e dalle esperienze di democrazia partecipativa e attivazione comunitaria, dall’innovazione sociale e dal mutualismo solidale.
Dalla carica emancipativa ed emancipante delle reti sociali e del lavoro: una lezione anche per il sindacato che non può più essere il luogo del passato e del presente, ma deve trasformarsi nella cerniera che permette di ricucire il futuro.
In questi anni, in tanti sono/siamo tornati al loro impegno monotematico, terrorizzati dal potere, ma anche dal fare rete con chi non ci è del tutto contiguo, uniforme.
Non basta più.
L’orizzonte comune non può che ricostruirsi su scala globale: nelle filiere dell’economia interdipendente, nel nodo di un movimento sindacale sovranazionale così come dal riconnettere tutto ciò al tema del modello di sviluppo e di consumo, del “voto con il portafogli”, del raccordo tra territorio e globale, alla questione della libera e “comune” circolazione di una conoscenza cooperativa e non solo competitivo-egoistica.
E’ un tema di consapevolezza personale e collettiva che precede tutti discorsi geopolitici che possiamo produrre.
Viviamo, è vero, la crisi delle grandi associazioni, a ogni livello, nazionale, europeo, globale.
Ma abbiamo anche molti strumenti in più, non solo virtuali.
Sta qui l’intuizione necessaria che era già in nuce a Genova e che va con urgenza ripresa.
Se non ci facciamo carico del debito dell’ultimo dei Paesi dell’America centrale, presto il debito, insieme alle riforme strutturali, schiaccerà anche noi.
La Grecia insegna.
E tutto ciò vale per la violenza sulle donne, la compressione dei diritti democratici, sociali, ambientali, educativi, nella crisi della democrazia sovranazionale e nel connubio e nel sostegno incoerente e reciproco tra politica di potenza e, vero o simulato, “scontro di civiltà”.
E’ da qui, da questa contraddizione e da questa consapevolezza che può e deve ripartire la politica, intesa in senso ampio.
Da qui possono ripartire le diverse generazioni, in primis quelle che hanno più interesse a correggere la rotta perché hanno più tempo per farlo.
Con nuove forme, ma con la certezza che un nuovo mondo possibile è ancora necessario.
Anche perché quello che si staglia ogni giorno di fronte a noi appare sempre più irrespirabile e privo di speranza, ingolfato di vuoto e di cicatrici vecchie e nuove che sembrano non potersi rimarginare, insieme alla rabbia degli esclusi che non si sentono visti.
Occorrono nuovi occhi per curare le "periferie esistenziali del pianeta", nelle nostre città, come nel mondo globale che, come ci ha insegnato benissimo Genova, ma ancor più questi sedici anni, sono enormemente e sempre di più interconnesse, mischiate, e per questo, però, anche potenzialmente sempre più solidali.
No, non serve, ha ragione da vendere, Bonini: "dover continuare a camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro", serve aver cura della propria memoria, delle proprie ferite, certamente insieme all'irrinunciabile necessità della ricerca di Giustizia. 
Serve ricominciare a nutrire e declinare la voglia, il desiderio, la passione di futuro che era nei nostri occhi di ventenni innamorati della poesia dell'impegno politico e sociale e che oggi incrocia una prosa diversa. Una prosa, però, che scrive una nuova storia alimentandosi di una radice, questa sì, altro che ferite, che è davvero positivamente, sorprendentemente incancellabile. Almeno per tanti di Noi.

Francesco Lauria

mercoledì 19 luglio 2017

DA DOVE RIPARTIRE? Messaggio in bottiglia a Samuele Bertinelli



Da quando, a Pistoia, si è verificato uno tsunami simile a quello che portò alla grandissimo cambiamento di Parma, nel 1998, non smetto di interrogarmi su quello che è successo. Un cambiamento l'ho auspicato anche io, fin da quando, ai primi di dicembre dello scorso anno, appena prima del referendum, ho maturato la decisione, molto profonda di abbandonare il Pd e anche il sostegno ad un'amministrazione della città che pubblicamente avevo definito come avviluppata in una torre d'avorio, molto distante dai bisogni e dai desideri dei cittadini di un comune molto complesso e ampio come quello di Pistoia.
Certamente, dal punto di vista personale, ho sbagliato molto, sostenendo un progetto che si è rivelato privo di rigore programmatico e di metodo democratico e che si è infranto e frantumato nelle proprie irrisolvibili contraddizioni anche etico-motivazionali. In questi mesi, però, è stato possibile guardare un po' meglio alle tante sfacettature di Pistoia, alle sue crisi, alle sue, per citare Papa Francesco, "periferie esistenziali". Già, perchè oggi la solitudine della politica si infrange con la solitudine e la rabbia delle persone. 
Questo mi è stato lampante in una contraddittoria e al tempo stesso illuminante serata alle Fornaci, in cui si leggeva un quartiere in cui sono cresciuti muri e deserto, nella distrazione di chi avrebbe dovuto valorizzare le potenzialità di riscatto e di cooperazione che pure sono percepibili.
E' da lì, non da altro, che deve ripartire chi, dopo settant'anni ha perso il potere e il governo. Deve ripartire dal farsi attraversare dalla realtà delle persone, delle comunità, della solitudini, così come dai progetti generativi che nemmeno vengono visti, figuriamoci sostenuti. Non serve a nulla fare la lista di chi avrebbe tradito o di chi si fosse sfilato in corso d'opera. Altri, attirati dai nuovi spartiti del potere, si sfileranno ulteriormente, spariranno. In un post l'ex sindaco, Samuele, ricorda con orgoglio le sue origini socialiste, lo ritrovate qui:https://www.facebook.com/Samuele.Bertinelli/posts/1647567931921391 .
 Mi sento di affiancare un'altra chiave di lettura trovata nei tormentati, quando illuminanti, scomodi e a tratti irritanti diari di Bruno Trentin. Nei giorni, drammatici di Tienanmen, Trentin, allora segretario generale della Cgil, riflette con ancora più forza sulle varie anime del marxismo e del socialismo e ricorda: "In questa lunga contesa, in questa eterna contrapposizione fra l'anima libertaria, autogestionaria del socialismo e l'anima statalista - quella della coesione dall'alto - sta certamente la radice delle nostre responsabilità e delle nostre sconfitte. Ma c'è anche la ragione della nostra speranza".


Trentin parla della libertà. del potere della persona (non certo da sola... non è Blair) contro la felicità elargita, parla del valore della libertà personalmente conquistata e praticata con la conoscenza e l'autorealizzazione. E' su questo messaggio in bottiglia che voglio concentrarmi: non serve rimanere prigionieri del passato, ma guardare ad un nuovo progetto che fonda il proprio orizzonte di senso nella liberazione reciproca delle persone, a partire da quelle più arrabbiate, impoverite, isolate. 
E' questa la sfida di un socialismo che, come in Trentin, con tutte le sue spigolature, si alimenta anche nel personalismo cristiano e cerca di rovesciare, con tormento, con angoscia, ma anche con ostinata speranza, il piano inclinato della storia. E' da qui che occorre ripartire, non da sè stessi e dalle ombre di un passato non più generativo e che, mi permetto di suggerire, mi sembra davvero da superare.

Francesco Lauria

venerdì 14 luglio 2017

Agrabah-Casa di Gello compie cinque anni e si proietta verso il futuro


“Abbiamo deciso di fare un muro di mattoncini utilizzando il nostro laboratorio di ceramica… si, insomma, una specie di muro dei Pink Floyd, mattoni per costruire il futuro”. 

Rossella Nausanti, vicepresidente di Agrabah – Associazione di Genitori per l’autismo – ci strappa un sorriso già all’inizio del colloquio che svolgiamo alla vigilia della grande festa per i cinque anni dell’apertura della “Casa di Gello”, la farm community, inaugurata nel 2012, come percorso di comunità ed integrazione riservato a ragazzi e adulti con autismo, a Pistoia e provincia.

Venerdì 14 luglio è una data speciale: sono già oltre centoventi le persone prenotate per la cena di festa e raccolta fondi dell’associazione che verrà preceduta da un concerto della Banda Barsotti, un originale quartetto musicale composto da un flauto, un oboe, un pianoforte e un batterista e che si esibirà con un repertorio oscillante tra Ennio Morricone e i Beatles.
“Siamo contenti, esordisce Alvaro Gaggioli – Presidente dell’associazione – sentiamo forte l’affetto dei nostri amici, delle nostre famiglie, delle realtà che ci sostengono (l’associazione è nata con un supporto molto significativo della Fondazione Caript), della comunità. Abbiamo passato momenti non semplici, in questi anni, e per noi l’anniversario è un momento di bilancio e di rinnovato entusiasmo”.
Agrabah è una realtà composita, attiva nel territorio pistoiese da quindici anni e che è partita, nel 2002, con il centro per minori di Santomato, tutt’ora operante. A Gello, tra tempi pieni e parziali, lavorano sette operatori e sono ospitati, nelle attività diurne, con alcune turnazioni, circa venticinque persone maggiorenni affette da autismo.
“Quando siamo nati, racconta Nausanti, a Pistoia non c’era nulla per gli adulti affetti da autismo, moltissimi rimanevano chiusi nelle case, in un isolamento devastante per loro e per le loro famiglie. E’ da qui che nasce l’intuizione di Agrabah, un’associazione tra genitori che insieme hanno cercato una risposta comune e che solo successivamente hanno trovato un riscontro dall’istituzioni a partire, ovviamente dalla Regione Toscana e dall’Ausl.”


“Possiamo dire – prosegue Gaggioli – che oltre il 90% delle persone che sono state accolte dalla Casa di Gello con i molteplici laboratori di Farm Community, falegnameria, ceramica, arte del riciclo, musicoterapia, potenziamento cognitivo e di autonomia personale, educazione al movimento, hanno avuto significativi miglioramenti. Ovviamente nella forte eterogeneità che caratterizza le manifestazione di questa, ancora non del tutto conosciuta, malattia”.
Le diagnosi di autismo sono in fortissimo aumento in tutto il mondo, la malattia colpisce, con un incidenza del 75%, prevalentemente soggetti maschili mentre le persone accolte a Gello, provenienti da tutta la provincia di Pistoia e non solo, sono, normalmente, di seria gravità.
I figli di Gaggioli e Nausanti, Dario e Mattia, condividono con gli altri ragazzi e adulti percorsi non sempre semplici, ma il più delle volte entusiasmanti di ricerca di autonomia e condivisione, volti a spezzare l’isolamento e la difficoltà di relazione con gli altri che colpisce le persone affette da autismo.
“Il nostro rapporto con le istituzioni – continua il Presidente di Agrabah – è oggettivamente positivo, siamo riusciti, gradualmente, a instaurare una collaborazione sussidiaria e integrata con Ausl e Società della Salute. Non posso tacere un problema di fondo, strutturale. Anche se diverse attività camminano con le proprie gambe e con i propri finanziamenti, per quel che riguarda le risorse regionali, è come se vivessimo sempre precariamente a progetto. Tutte le convenzioni sono annuali e la costante incertezza, legata anche ai tagli sulle risorse, a volte ci spinge a rinunciare ad alcuni laboratori, per paura di creare aspettative nei ragazzi che potrebbero poi rimanere frustrate. Anche per gli operatori tutto questo è molto pesante, anche se non incide minimamente sulla loro voglia di fare e sulla loro abnegazione che non si ferma solo ad un apporto meramente professionale”.
Ma quali sono le prospettive di Agrabah e in particolare della Casa di Gello?
“Le nostre due sfide più recenti – ci racconta la vicepresidente – sono “l’orto nel paniere” e il progetto Comunità alloggio. L’oro nel paniere è un’attività di farm community che, attraverso processi ecologici e biologici, vuole metterci in contatto con il paese e con la città, proponendo i nostri ortaggi e i prodotti delle nostre serre. I ragazzi vendono direttamente i prodotti da loro coltivati anche attraverso un sistema di ordini e di consegne porta  a porta, a chilometro zero. Il progetto “Comunità Alloggio” è, invece, legato al tema cruciale del “dopo di noi”. Stiamo facendo sperimentare ai nostri ragazzi dei week end residenziali nella Casa di Gello proprio per provare a stimolarli all’autonomia e, nei limiti del possibile, a percorsi di indipendenza. I primi esperimenti, che verranno rafforzati, sono stati molto positivi”.


Le prospettive di Agrabah non si fermano qui.
“Molti di noi – ci confidano Nausanti e Gaggioli – cominciano a sentire il peso degli anni. Abbiamo sempre l’entusiasmo degli inizi e la motivazione fortissima di dare un futuro ai nostri figli. E’ per questo che, sapendo quanto sia ampio il fenomeno dell’autismo nel nostro territorio, siamo molto motivati a cercare nuovi soci, nuove famiglie che entrino nella nostra realtà e vogliano condividere un progetto collettivo anche per uscire dall’isolamento e dalla solitudine”.
Mentre usciamo nella serra le parole fanno spazio alle emozioni, all’orto che cresce ogni anno e che ogni giorno si anima della vitalità, come delle paure, dell’entusiasmo come delle difficoltà dei ragazzi di Agrabah.
C’è il tempo di un’ultima, importante osservazione.
“Vogliamo rompere lo stigma dell’autismo, vogliamo rappresentare un mondo interessante per gli altri, cercare di dare, restituire qualcosa. La cosa più bella che abbiamo capito insieme ai nostri ragazzi e ragazze, agli operatori, a tutti coloro che vivono con noi questa intensa, totalizzante, avventura, è proprio lo stupore consapevole che anche noi possiamo dare. Non ci interessa essere destinatari passivi di sovvenzioni, ma ricostruire quella capacità di relazione, magari speciale, magari più esigente che, a volte, l’autismo potenzialmente può rompere o perlomeno interrompere. Ecco, questo è il senso della nostra festa di domani”.
Buon compleanno Agrabah. C’è davvero ancora molto da “dare”.

Francesco Lauria

Pubblicato su:
http://www.reportpistoia.com/pistoia/item/50039-agrabah-casa-di-gello-compie-cinque-anni-e-si-proietta-verso-il-futuro.html