lunedì 28 agosto 2017

LE RUGHE E I RICORDI DI CASTAGNO



Ci sono luoghi, nella collina e nella montagna pistoiese, che sono davvero bellezze nascoste, magari un po' polverose, ma ricche di significato. Uno di questi è Castagno di Piteccio, frazione in cui si trova anche una delle fermate della ferrovia Porrettana. 
A Castagno c'è una sorta di museo all'aperto con le sculture tra le case, eredità di una grande vitalità artistica e culturale risalente a un paio di decenni fa.
E tra queste pietre, può capitare, una domenica di fine estate, un po' prima della cena, di ascoltare, inaspettatamente, i ricordi di una donna del paese, ricordi bambini di una guerra che a noi appare lontana, sempre di più.
Ascoltare le immagini dei rastrellamenti nazisti e delle svastiche nere dipinte, come sfregio, sulle case, rinnovare la eco di un pianto infantile che, almeno per un istante, quasi miracolosamente, quasi come in una favola provvisoria, riesce ad evitare il peggio.
Colpisce osservare le rughe e immaginare lo sguardo di una bambina, ormai vicina agli ottanta anni, che, con semplicità, ci ricordano quello che è stato.
Quello che mai dobbiamo dimenticare.
Anche quando non potremo più ascoltare dai testimoni diretti la barbarie che l'uomo ha prodotto, pezzo a pezzo, nutrendosi della banalità del male.   (F.L.)









venerdì 25 agosto 2017

SUL "CASO" DON BIANCALANI: Andiamo più in profondità.


Anche se sono convinto che la bolla mediatica si smorzerà presto confesso che sono un po' disorientato da quello che sta avvenendo a Pistoia. Amici, colleghi da ogni parte d'Italia (e non solo) mi chiedono se conosco Don Biancalani.
Ricevo appelli da altre persone, sicuramente non praticanti, forse persino non credenti, a partecipare domenica alla Messa a Vicofaro dopo le, oggettivamente allucinanti e farneticanti, dichiarazioni intimidatorie di Forza Nuova.
Molte volte sono stato a Messa alla Chiesa di Vicofaro, ho apprezzato anche diverse iniziative collaterali, dal mercato della terra a numerose attività culturali e sociali messe in campo.
Il foglio della parrocchia che evoca le "Esperienze pastorali" di Don Milani è sempre una lettura stimolante. Ritengo, inoltre, che la scelta di Don Massimo Biancalani, così come quella di Don Alessandro Carmignani, già da molto tempo, di aprire ai progetti di accoglienza ai rifugiati i locali parrocchiali, in raccordo con i sistemi pubblici, sia stata lungimirante e assolutamente positiva.
Detto questo sono convinto che, non per la prima volta, Don Massimo Biancalani abbia sbagliato, usando i social network in modo "esibitivo", parlando troppo spesso al posto dei migranti, togliendo loro, in questo specifico caso, non generalizzo, indirettamente la parola e la voce.
Era già successo mesi fa, quando, senza alcun confronto con la comunità islamica pistoiese era entrato, a mio modesto parere, in maniera maldestra, nel dibattito sulla costruzione della moschea a Pistoia sempre via facebook.
Il mio semplice dissociarmi non tanto nel merito, ma nel metodo mi aveva portato, da parte sua, ad insulti e persino minacce di querele. Qualcosa, sinceramente, di allucinante.
Nonostante questo non ho desistito dall'andare a Messa, pur saltuariamente a Vicofaro, e ad andare oltre, perché non ha senso serbare rancori, anzi ricevetti insulti e attacchi pesantissimi quando, utilizzando le parole di Padre Ernesto Balducci, stigmatizzai la scelta, orrenda, dal candidato sindaco di Casa Poud a Pistoia di disertare il dibattito a Vicofaro sulle elezioni amministrative, solo perché non voleva condividere il pane preparato da migranti e rifugiati accolti in parrocchia.
Perché scrivo tutto questo?
Per due motivi: don Massimo Biancalani non va idolatrato, non è un novello Don Milani, ha pregi e difetti, spesso è molto, troppo impulsivo e paradossalmente davvero scarsamente capace di dialogo con chi non la pensa esattamente come lui.
Il secondo, più importante, è il clima che sta montando, irrespirabile e superficiale sui temi dell'immigrazione, dell'accoglienza, dello ius soli temperato, etc.
La politica sembra svanire, capace solo di manganelli, di respingimenti, schieramenti a priori, priva di progetto ad ogni livello: comunale, provinciale, regionale, nazionale ed europeo.
Gli stessi che organizzano i sit in e la partecipazione militante alla Messa di Vicofaro domenica prossima sono estremamente timidi nel promuovere politiche vere di accoglienza e integrazione diffusa.
Certamente è importante non lasciare solo Don Biancalani, e soprattutto i ragazzi accolti a Vicofaro, di fronte alle becere e mai da sottovalutare, minacce fasciste.
Certamente non è possibile voltarsi dall'altra parte.
Ma c'è modo e modo.
Ci vuole più profondità e prospettiva, meno calcoli, sensazionalismo, direi conformismo opportunista.
Bisogna cambiare e convertire lo sguardo.
E' bene che intorno al parroco e a questi ragazzi, almeno domenica alla Messa, discorso diverso vale per le altre situazioni, si stringa in primis la comunità parrocchiale, non sigle politiche autoreferenziali alla ricerca più di una rivincita postelettorale che di una mobilitazione consapevole delle coscienze.
Anche le istituzioni devono fare un passo avanti, considerando anche il contesto "pubblico" dell'accoglienza dei richiedenti asilo presenti a Vicofaro, prendendosi le proprie responsabilità.
Forse però, lo stesso Don Biancalani dovrebbe riflettere molto di più su come includere, dialogare, ricucire. Un esempio sono le belle e significative tonache realizzate, sempre a Vicofaro, dai ragazzi accolti, spesso musulsulmani, per i bambini e le bambine della prima comunione.
Di fronte a chi incendia, bisogna mettere in campo una foresta che cresce, risposte inclusive, relazioni durature e profonde, non un protagonismo apparentemente eroico, ma spesso, mi spiace dirlo, anche un po' superficiale e, talvolta, controproducente.

Ci stiamo dimenticando, come ci ricorda molto bene Luciano Manicardi, che la vita implica l'accettazione dell'alterità e della differenza. Un'etica della cura che si assuma la responsabilità dell'altro come fratello non si può certamente rifugiare solo nell'affermazione astratta dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani. Ma accettare l'altro significa proprio accettarlo nella sua diversità e differenza. Se non si accolgono le differenze di cui l'altro è portatore, invece di instaurare pratiche di prossimità e di fraternità si instaurano pratiche di umiliazione. In questo errore, è bene ricordarlo, possiamo incappare tutti.

Francesco Lauria

http://www.reportpistoia.com/agora/item/51182-sul-caso-don-biancalani-andiamo-piu-in-profondita.html

mercoledì 16 agosto 2017

IL VOLTO E IL RESPIRO DI BARBIANA: MICHELE E DON LORENZO.

"È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. […] 
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. 
Cio' che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo. "

F. Pessoa


Questa frase di Pessoa racchiude un seme prezioso di verità.
E’ allenando lo sguardo che si può cogliere realmente quello che la pietra viva della storia può raccontarci, entrando in contatto non solo con i nostri occhi, ma con la nostra anima.
Per risvegliare lo sguardo non bastiamo noi stessi, ma occorre la generosità dei maestri, dei testimoni, insieme a quella delle compagne e dei compagni nel cammino: fermiamo il tempo del nostro viaggio ed accorgiamoci del tesoro inestimabile, spesso nascosto, che abbiamo di fronte.
Il libro di Michele Gesualdi: “Don Lorenzo Milani – l’esilio di Barbiana” (Edizioni San Paolo) è tutto questo: carne e poesia viva della memoria, racconto caldo e, al tempo stesso, religiosamente meticoloso, di una vita, quella di Don Lorenzo e degli adulti e dei ragazzi che lo hanno incontrato nelle esperienze, indimenticabili e forgianti, di San Donato e di Barbiana.
Il “fiore rosso” della testimonianza dell’allievo di Don Milani è un astrolabio prezioso, assolutamente unico fra i tanti scritti esistenti sul Priore, come lo chiamano ancora oggi i “ragazzi” e le ragazze” di Barbiana. E’ come una guida, segni bianchi e rossi su un sentiero che porta ad avvicinarsi al cielo, da molto lontano, da una “fame di verità e una sete di giustizia”  che dal Seminario, da San Donato, arriva all’esilio della libertà privata, e poi riparata, reinventata nei monti, in tredici anni di amore vissuto, sofferto e gioito.
Non si può scrivere o ispirarsi correttamente a Barbiana, senza aver percorso quel sentiero, con i passi di un viaggiatore che deve aprire gradualmente il proprio cuore al “mistero” di questo luogo.


Mentre si sale per il sentiero della Costituzione che porta alla canonica, con il libro di Gesualdi nello zaino, non si può che essere grati a chi ha saputo custodire questo luogo del corpo e dell’anima: un luogo sperduto nei monti, un “niente” in cui un prete e un gruppo di ragazzi hanno saputo trasformare il paesaggio e perfino “ricreare l’oceano”, attraverso una piccola piscina.


Un percorso accidentato, ricchissimo, non trasformabile in quelle vite un po’ edulcorate dei “santi”, in cui tutto sembra perfetto, meritevole di omaggio, quasi senza contraddizioni.
Capita di incontrare in carne ed ossa, salendo a Barbiana, chi questi luoghi li ha vissuti, voluti, quando erano segno di esilio e di emarginazione, anche dalla Chiesa-istituzione.
E’ forte il desiderio di non snaturare il senso della testimonianza dei tempi in cui: “a Barbiana non veniva quasi nessuno”, quando il ponte di Lucianino, fatto costruire per permettere a un bambino di attraversare il ruscello e giungere alla scuola, era coperto dai rovi. Quando le lettere di insulti e di minacce, come racconta Gesualdi alla fine del suo stupendo libro, erano ben più di quelle di apprezzamento e si accompagnavano al silenzio distante della Chiesa.
In queste piccole, semplici stanze, nella canonica, nell’edificio sacro, nella biblioteca, nel cimitero, financo nella piscina, non troveremo mai un santuario, ma soprattutto continuiamo a riconoscere domande che sono ancora vive, a tratti sanguinanti, nel tempo di oggi.


Come è possibile, sempre di più, continuare a fare parti uguali fra disuguali? 
Come possono le Fedi benedire e promuovere strumenti di morte e dominio? 
Perchè fuggiamo da una scuola lontana, sempre più nozionistica e non immune dal darwinismo sociale, spesso incapace di vera inclusione e distante da quell’ “imparare facendo” che certo non era approccio utilitaristico all’apprendimento? 
Qual è il senso del fare sindacato oggi mantenendo intatta la missione emancipatrice di un fondamentale corpo sociale collettivo, ma innovando linguaggi, convertendo sguardi, ritrovando strumenti, tracciando percorsi?
 Infine, rimanendo quasi disorientati dall’intuizione profetica di Don Milani e di Barbiana nello studio delle lingue e delle culture diverse (che bello imbattersi nel Padre Nostro in cinese fatto tradurre da Don Lorenzo!) come concepire e dare concretezza alle tante “Barbiana” necessarie in una società interculturale, in cui lo smarrimento dell’identità si trasforma in odio e in paura/ignoranza/indifferenza dell’altro e dello “straniero”?


Chissà se tutto questo è risuonato nella preghiera di Papa Francesco, lo scorso giugno a Barbiana, forse anche alla ricerca di un’espiazione, per una Chiesa che, solo nel 2013, ha riabilitato un testo fondamentale di Don Milani come Esperienze Pastorali.
Allora, per camminare domandando, per salire nella verità i sentieri di Barbiana (tanti percorsi diversi, per nulla omologanti, quanti sono i viaggiatori sinceri)  il libro, l’atto di amore di Michele Gesualdi è un tesoro che va letto, custodito e diffuso, anche per uscire dal conformismo di un incontro con Don Milani troppo comodo e rassicurante.


Nelle ultime pagine l’ex sindacalista ci dona i suoi ricordi più intimi, sempre con lo sguardo rivolto non verso se stesso, ma verso Don Lorenzo, con la sua ruvidezza d’amore, la sua ricerca ultima del canto degli uccelli nella musica.
Proprio oggi, che una malattia rara gli ha rubato la parola e ne ha reso difficile il respiro Michele Gesualdi, ci dona proprio parola e respiro e, attraverso di essi, con un tradurre che non è mai, in questo caso, tradire, ci porta fino alla sorgente del respiro e delle parole, quelle vere, di Don Lorenzo Milani.
Gesualdi, soprattutto nelle ultime pagine, è riuscito a compiere quello che Emmanuel Levinas descriverebbe come la capacità di sentire l’insufficienza di ciò che accade dentro di sè, nella propria avventura di vita o perfino nell’avventura di vita che l’io vive con l’altro siano essi Don Lorenzo, Eda, i ragazzi e le ragazze di Barbiana.
La verità più vera, per Levinas, è depositata in una dimensione terza: il “volto”.
Il volto nudo di Don Milani che l’autore, con un grido d’amore, ci trasmette alla fine del libro, è l’ultimo approdo di una vita degna di essere vissuta. Il volto è un cammino, proprio come il sentiero di Barbiana, ricco di dettagli, in cui, direbbe sempre Levinas: “nel camminare cedo alle tue sfumature, smetto nel mio dire e vengo meravigliosamente «detto» dalle tue labbra, dal tuo sorriso, dai tuoi giudizi, dalla tua biografia”.


Respirare, quando si ritrova la consapevolezza del viaggio della Vita, specie quando essa è più fragile, ultima e indifesa, non è più un’abitudine, ma una scelta.
Sta a noi, lettori viaggiatori, far divenire il volto nudo di Don Lorenzo e di Barbiana attraverso le parole di Michele, un consapevole respiro collettivo.
Sta a noi, non limitarci a vederlo, questo volto, ma, ognuno con il proprio carisma, ad “esserlo e a farlo esistere”.
Partendo, magari, proprio da quel sindacato in cui Don Lorenzo Milani ha molto creduto e in cui Michele Gesualdi ha, tanto e bene, vissuto.
GRAZIE.

Francesco Lauria


SENZA RASSEGNARSI AL VUOTO DEL PRESENTE E AI NUOVI FASCISMI:                  In ricordo di GIUSEPPE DONATI E DEL SACRIFICIO DI GIACOMO MATTEOTTI




Un’estate rovente quella del 2017. Così come la fu quella del 1931, quando, in condizioni di assolutà povertà, moriva in esilio a Parigi, Giuseppe Donati.
Poco più di sei anni prima, il 18 giugno 1925,  Donati, il Direttore del quotidiano "Il Popolo", era stato costretto a lasciare l’Italia, terra che non avrebbe visto mai più, lasciando a Roma moglie e figlie in giovanissima età.
Fu la denuncia senza indugio di Donati rispetto alle responsabilità fasciste nel delitto Matteotti a decretarne la persecuzione da parte del costituendo regime.
E’ proprio nell’anniversario del ritrovamento, in un bosco nei pressi di Roma, del cadavere di Giacomo Matteotti che, con il martire socialista, vogliamo ricordare Giuseppe Donati: il suo esempio, la sua testimonianza.
Donati, cattolico democratico romagnolo, pagò con l’esilio e poi con la vita il proprio giornalismo di inchiesta, agito da rappresentante delle istituzioni democratiche, e la conseguente sfida ai meccanismi perversi del potere fascista, in via di affermazione grazie anche a coloro che vi si inchinavano, svalutando democrazia e libertà.
Donati fu anche un precursore del dialogo tra popolari e socialisti, aveva intuito, infatti, che fosse necessario saldare un blocco sociale progressista al fine di controbilanciare gli interessi conservatori e speculativi che facevano inesorabile argine, nel nostro paese, a qualsiasi reale svolta sociale a favore dei ceti più deboli, nelle campagne come nelle città.
Un grande insegnamento quello di Giuseppe Donati: anche rispetto al suo attento studio, quasi profetico, dei meccanismi perversi dell’economia finanziaria. Fu quindi un cattolico dalla fede esigente, ma profondamente aperto al dialogo con altri mondi e altre culture.
Una persona ponte, insomma, mai doma anche nelle gravi difficoltà morali e materiali dell’esilio francese, nonostante le incomprensioni con alcuni esuli antifascisti radicali che renderanno ancor più difficili e precari gli ultimi anni della sua vita.
Il ricordo vivo di figure come Giuseppe Donati come quello di Giacomo Matteotti non può essere confinato agli anniversari, ma permea le iniziative del Centro Studi di Pistoia come di altre realtà a lui dedicate.
Ha scritto Giovanni Bianchi, ex presidente nazionale delle Acli e dell’associazione Partigiani Cristiani, scomparso proprio in questa torrida estate.

“Due grandi epopee popolari come l’antifascismo e la Resistenza rischiano la noia delle liturgie ripetute.
Quando si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di passare dal vecchio al vuoto.
 Occorre tenere culturalmente e concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni”.

E’ questo il senso di un ricordo che si nutre di futuro e che non si rassegna al vuoto di un presente difficile. Un presente in cui nuovi fascismi si incuneano nelle coscienze delle persone e nella scena pubblica italiana, europea e mondiale, senza incontrare, almeno in apparenza, sufficiente ed inequivocabile opposizione di chi crede negli ideali di democrazia, eguaglianza e libertà.

lunedì 14 agosto 2017


1980-2017. Da Pistoia a Danzica. I cantieri navali e noi: memoria e libertà, tra Lenin e Reagan

Il 14 agosto 1980 ebbe inizio lo sciopero nei cantieri navali di Danzica che si sviluppò nell'autunno concretizzando una grande e deflagrante esperienza di lotta sindacale e politica per la libertà.
Un germoglio che avrebbe raggiunto carsicamente il fatidico 1989.
Ripubblico il racconto del mio viaggio da Pistoia a Danzica, dell'ottobre scorso, pensando alle fratture dell'oggi e alla scommessa profetica, pur tra contraddizioni già visibili, di quel tempo che ha nel 14 agosto 1980 una data fondamentale.
Nelle prossime settimane tornerò in Polonia e cercherò di arricchire il mio viaggio nella memoria.

Danzica è una città che sa sorprendere.
Chi pensa, atterrando nel rinnovato aeroporto Lech Walesa, di raggiungere semplicemente una realtà industriale in declino, magari grigia e fredda, deve poi ricredersi. Certo, i segni del cambiamento, con le sue difficoltà ci sono tutti, ma la realtà è complessa. Innanzitutto ci troviamo in un crocevia della storia, in particolare del Novecento. Ciò che fu Sarajevo per la Prima guerra mondiale, lo è stata questa città posta sul mare, alla confluenza della Motlawa e della Vistola, per la Seconda. Fu infatti la pretesa insoddisfatta di ottenere la “città di libera” di Danzica, a fornire ad Hitler il pretesto per l’invasione della Polonia, attaccata da ovest, mentre veniva aggredita da Stalin ad est.
Ma, soprattutto, ci troviamo nella città dei cantieri navali e della lotta per la conquista della libertà. Quei cantieri, intitolati a Lenin, hanno visto la grande rivolta sindacale e politica di Solidarnosc.
Quando giungo, infreddolito, all’insegna che indica l’ingresso agli ex cantieri Lenin “Stocznia Gdanska”, la vecchia scritta porta i segni della ruggine e cela alcune costruzioni con i mattoni rossi che ricordano un passato produttivo, ormai tramontato. Valicarla, nella sua sobrietà, non può non provocare emozione.
Per me non è la prima volta. Scopro nuovi dettagli, mi accorgo che la scritta Lenin non è stata portata via, semplicemente è stata coperta con le lettere: “Solidarnosc”. A fianco un chiosco con i souvenir, discreto, ma comunque un po’ stridente. Subito, sulla sinistra, appare nella sua imponenza il monumento ai morti dei primi scioperi, quelli, meno noti, del 1970. Gli operai si trovarono crudelmente senza scampo tra la milizia schierata e le rotaie dei treni, un vero e proprio assassinio di Stato di cui, mi dicono, per anni non si poté nemmeno parlare.
Poi arrivò il 1979, la visita di Giovanni Paolo II° nella sua Polonia, i licenziamenti e le vertenze salariali, il tempo maturo per una vera e propria rivolta. Nell’autunno del 1980 lo sciopero fu guidato da Lech Walesa, elettricista allontanato dai cantieri alcuni anni prima, la miccia, in questo caso, fu il licenziamento politico, a pochi mesi dalla pensione, di una donna, sempre impiegata nel complesso industriale. Fu così che in quel frangente la storia cominciò a procedere con un passo accellerato. Oggi, la storica sala Bhp, all’epoca un grande spazio mensa dei lavoratori dei cantieri dove si svolsero le trattative durante lo sciopero, è una moderna sala conferenze di Solidarnosc. Si possono toccare quasi con mano molti cimeli, a partire dai caschi gialli degli operai, dalle storiche bandiere del sindacato, fino ai modellini delle navi un tempo costruite a Danzica, salvati dalla distruzione, quando, caduto il Muro, i cantieri fallirono per una prima volta. Fu lì che si produsse il trionfo di Walesa e del primo sindacato libero, breccia nel blocco comunista. 
Lo testimoniano le foto e i filmati dell’epoca in cui il sindacalista con i baffi conclude vittoriosamente le trattative e firma l’accordo con il Governo con una curiosa enorme penna che, si dice, contenesse il ritratto nascosto del Papa polacco. “L’uomo di ferro”, film dell’epoca, girato avventurosamente, ritrae Walesa nelle settimane dello sciopero. Lo posso vedere sul luogo, proprio pochi giorni dopo la scomparsa dell’autore, il grande regista polacco Andrzej Wajda. A sinistra della sala, vicino all’imponente monumento ai morti del 1970, da un paio d’anni, è stato aperto un grande museo che permette di rivivere, con l’ausilio delle moderne tecnologie, tutto il percorso che, dal 1970, ha portato, in venti anni, alla democrazia. 
La giovane guida che accompagna me e un centinaio di sindacalisti provenienti da tutta Europa è documentatissima e appassionata. Le sfuggono alcuni accenti trionfalistici, ma l’immersione nella rivolta e nel successivo complesso ritorno alla clandestinità per poi culminare nell’incredibile 1989 è assolutamente coinvolgente. Danzica quindi, come noi del resto, deve fare i conti con la memoria e con il presente. Dei diciottomila operai che lavoravano presso i cantieri navali, solo poche migliaia sono oggi ancora impiegati in cantieri più piccoli, privati. Per ora le grandi o medie navi non si costruiscono più, al massimo si riparano e si sperimentano nuovi business, come la costruzione di componenti per le pale eoliche. Tutta la zona intorno alla sala Bmp è stata interessata da una grande possibile speculazione edilizia, per ora bloccata, in quella parte della città il progetto è di costruire un’enorme ipermercato. Salve, invece, le storiche altissime gru dei cantieri, monumento riconosciuto dall’Unesco e di cui ora nessuno potrà più sbarazzarsi, con la scusa della ruggine. Ne parlo con Agnieszka Rybczyńska (nella foto a sinistra) responsabile europea di Solidarnosc. Agnieszka è cresciuta a Danzica e mi racconta l’altra faccia della medaglia del post 1989.



I cantieri, già in crisi, cominciarono un declino molto veloce, fino ad una prima bancarotta nel 1996. 
"Nei primi anni novanta – mi racconta – io facevo le scuole superiori. Ad un certo punto molti miei compagni si trovarono con i genitori, compresi quelli che lavoravano nell’indotto, senza lavoro, non partecipavano più alle attività scolastiche, dovettero rinunciare al progetto di andare all’Università. Seguirono vari processi di dismissione e privatizzazione: il grande miraggio del libero mercato paradossalmente - continua Agnieszka - ha presentato velocemente e duramente il conto proprio qui e proprio a quegli operai che si erano rivoltati contro il comunismo di Stato".

Le chiedo di parlarmi di Danzica oggi. Lo fa con orgoglio, tornando, però al passato. Mi confida di come mai proprio qui, è potuta scoccare le scintilla della libertà.
“Questa è una città – racconta la sindacalista – che è sempre stata diversa, più aperta delle altre città della Polonia. Quando un mio cugino mi veniva a trovare dall’altro lato del paese – ero piccola – ridevo del fatto che lui rimanesse a bocca aperta vedendo, al porto, asiatici e africani”.
A Danzica c’era e c’è, ad esempio, una storica minoranza mussulmana, di origine tartara. Oggi non si costruiscono nuove navi, ma è stata aperto un grande polo tecnologico, dove le navi si disegnano e si è mantenuto un significativo polo della logistica.
“I cantieri non ci sono quasi più – conclude Agnieszka – dobbiamo costruire il futuro su diversi pilastri, non solo nell’industria pesante".
“Già - mi fa notare una giovane ricercatrice anch’ella polacca - qui il mare è bellissimo. Certo ai tempi d’oro dei cantieri, a causa dell’inquinamento, i miei genitori dovevano spostarsi per chilometri per non trovare un’acqua di acciaio, di ferro e di piombo”.
Mentre parlo con Agnieszka i vertici dei tre diversi sindacati polacchi si confrontano con un certo agonismo di fronte alla platea europea. I temi caldi sono generali: i diritti civili (in particolare l’aborto) e i rifugiati. Per me è ormai tempo di tornare all’aeroporto, curiosamente intitolato al vivo e vegeto Lech Walesa. 
Ho nella borsa un grande boccale da birra in ceramica che i colleghi di Solidarnosc hanno voluto donarmi. I rilievi della ceramica raffigurano un po’ di tutto: dai caschi degli operai all’icona, stilizzata, di Giovanni Paolo II°, il celebre simbolo-icona di Solidarnosc, disegnato, apprendo, proprio nei giorni della rivolta. 
Non manca una nave, un vascello, a vele spiegate. Solo le vele del vento della libertà, mi dico. Guardo meglio e decifro la scritta all’interno: R. Reagan. 
La rileggo, incredulo. Chi, per molti, ha rappresentato l’icona del liberismo più sfrenato e della deregolamentazione del lavoro per altri, ancora oggi, è, invece, un simbolo di emancipazione.
Ma di questo, sono certo, parlerò con i colleghi polacchi nella prossima visita. Nel frattempo gli occhi si chiudono, le nuvole nei sogni cambiano colore, e Pistoia, lentamente, si avvicina.

Francesco Lauria

Pubblicato su:
http://www.reportpistoia.com/news/item/41230-da-pistoia-a-danzica-i-cantieri-navali-e-noi-memoria-e-liberta-tra-lenin-e-reagan.html

venerdì 11 agosto 2017


TORNARE AI FONDAMENTALI: un sindacato che abiti le periferie esistenziali e del lavoro.
Intervista ad Alessandra Biagini, Cisl Toscana Nord

Il 28 luglio scorso il consiglio generale della Cisl Toscana Nord, ha eletto la pistoiese  Alessandra Biagini nella segreteria dell’omonima struttura che accorpa le province di Pistoia, Lucca e Massa Carrara.
La incontriamo in un torrido pomeriggio di inizio agosto, in una sede di Viale Matteotti, quasi in assetto di pausa estiva, con l’eccezione della sua categoria di provenienza, la Scuola, che vede un fitto via vai di docenti non di ruolo, in prevalenza giovani, alla ricerca di informazioni e consulenza sulle graduatorie.

Come ha conosciuto il sindacato?
L’ho conosciuto da precaria, tra il 1978 e il 1979, quando iniziai le prime supplenze nella scuola dell’infanzia statale. Come quasi tutti i miei colleghi avevo delle difficoltà nel compilare le domande e trovai nella Cisl Scuola di Pistoia, allora guidata da Marco Melani, un supporto attento, in particolare per noi giovani non di ruolo. Tornavo spesso alla sede e quando mi chiesero di iscrivermi fui felice di farlo. Entrai in ruolo nel 1985, presso la scuola dell'infanzia di Agliana, ma rimasi in contatto con la Cisl come volontaria. Fu nei primi anni duemila, con le prime elezioni Rsu nella scuola, che mi fu chiesto di candidarmi e di impegnarmi nel mio istituto, cosa che avvenne anche nella tornata di elezioni successiva. Nel 2004 mi trasferii alla Leonardo da Vinci di Pistoia, perdendo la carica elettiva, anche se dall'anno precedente ero impegnata regolarmente nelle consulenze. Nel 2005 mi fu proposto, dall'allora segretaria Cristina Zini, il distacco sindacale a tempo pieno e l'entrata in segreteria della Cisl Scuola di Pistoia. Nel 2009 sono diventata segretaria generale della Cisl Scuola di Pistoia. Infine, nel 2014, con l'accorpamento di Pistoia, Massa e Lucca, segretaria generale della Cisl Scuola Toscana Nord.

Il suo percorso, molto graduale, ci permette di riflettere su come è cambiato fare sindacato negli ultimi anni, a partire dalla scuola.
Nel settore della scuola, i cambiamenti delle normative, in particolare dal 2008, hanno subito una fortissima accelerazione, ad ogni livello. Il sindacato rincorre non senza affanno questi cambiamenti regolativi, legati anche alla digitalizzazione spinta della Pubblica Amministrazione. Spesso non si riesce a leggere e analizzare un'ordinanza, una legge, una circolare, che la norma è già cambiata. Tutto questo, un po' paradossalmente, è contemporaneo alla stasi della contrattazione nel settore pubblico, bloccata dalla crisi. Spesso siamo costretti a fare più sportello che sindacato vero e proprio. La consulenza, la vertenzialità, il supporto amministrativo, anche in supplenza delle istituzioni, sono elementi importanti, ma il nostro fulcro dovrà tornare ad essere sempre più il confronto costante con i lavoratori  e la loro rappresentanza sui luoghi di lavoro. Nel nostro settore, ma non solo, stiamo poi ancora gestendo le plurime gravi criticità originate dalla riforma Fornero. 

Quali sono le priorità con cui si accinge al nuovo incarico confederale a Pistoia? Quali le prime sfide da affrontare?
Il mio approccio non può che essere umile. Vengo da un'esperienza che è stata molto incentrata nel mio settore professionale, dovrò ascoltare molto. Concentrarsi sul fare squadra sarà fondamentale, con le nostre categorie e con i servizi. La priorità organizzativa è poi lo spostamento della sede, perchè ci rendiamo conto che quella attuale non è più adeguata alle esigenze degli iscritti e degli operatori. La Cisl di Pistoia nella Cisl Toscana Nord, deve concentrarsi a realizzare unitarietà di intenti, essere inclusiva e sempre più presente sul territorio, in rapporto con le istituzioni e tutto il mondo delle parti sociali e dell'associazionismo. Dobbiamo esserci: penso anche alla contrattazione sociale.

Come rispondere a chi parla, non senza riscontri oggettivi, di declino del sindacato?
Il nostro ultimo congresso nazionale ha preso avvio in un'udienza molto significativa con Papa Francesco. Come ci ha ricordato giustamente il Papa, il sindacato deve tornare a frequentare le periferie del lavoro, deve esserci dove il lavoro non c'è, per chi il lavoro non ce l'ha, l'ha perso. Deve incontrare e supportare i giovani che il lavoro non l'hanno mai trovato e sono caduti nel circolo vizioso della sfiducia. Muovere verso queste persone non è semplice, occorre trovare parole e modalità nuove, ricostruire spazi, luoghi, presidi sociali abitabili: partendo dai ragazzi e dalle ragazze. Dobbiamo fornire una bussola a coloro che faticano ad orientarsi in un mercato del lavoro ancora fermo e poco trasparente, aiutarli ad impegnarsi sulle loro competenze, non lasciarli soli. Dovremo certamente investire energie sulle nostre sedi periferiche, solo apparentemente marginali, penso, per fare un esempio, al nostro presidio, potenzialmente strategico, nel quartiere delle Fornaci. Innovazione e formazione continua sono elementi centrali anche per valorizzare i settori produttivi del nostro territorio, preservandoli dal declino e da una tensione competitiva, ormai globale, basata solo sulla compressione dei costi del lavoro.



In questi giorni i vostri uffici sono presi d'assalto da insegnanti alla ricerca di un posto in graduatoria. Cosa si può fare perché il sindacato non diventi semplicemente un mega ufficio vertenze e servizi?
Vale per la scuola, ma non solo: dobbiamo ripartire dalla contrattazione. Il sindacato, in senso generale, non può limitarsi ad essere solo uno sportello. Aiutare le persone è importante, anche attraverso le vertenze, ma non basta, per quello potrebbero bastare, forse, gli avvocati. Il sindacato vive contrattando accordi sulle condizioni di lavoro, tenendo presente anche i tempi di vita e tutti gli aspetti legati al welfare e al benessere delle persone e delle famiglie. Non solo sul posto di lavoro, ma a trecentosessanta gradi. Dobbiamo contribuire a cambiare la cultura del paese su questo, a partire dalla concretezza degli accordi in azienda e nel territorio, quest'ultimo sempre più importante in un mercato del lavoro così frammentato. E' necessario riflettere su come innovare i contratti collettivi, accompagnare le trasformazioni digitali del lavoro, non avere timore nel contribuire a governare il cambiamento.

Il nuovo sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi, ha dichiarato, in campagna elettorale, di credere nei corpi intermedi e nel sindacato. Che effetto le fa sedere ai tavoli con un sindaco di centro destra nel comune capoluogo? 
Ci confronteremo sul campo e sul merito, come è nostra attitudine. Questo vale non solo per l'amministrazione comunale di Pistoia, ma per tutte quelle del territorio, a partire dalle nuove giunte, di qualunque colore politico siano. Credo sia importante essere chiamati a discutere concretamente ai tavoli, non ci interessano i riti. Daremo il nostro contributo a partire dall'analisi e dal monitoraggio dei bilanci comunali.

Dal suo punto di vista di insegnante e di sindacalista come ha funzionato, a Pistoia, l'alternanza scuola lavoro, introdotta dalla cosiddetta "buona scuola"? Cosa si può fare per migliorarla?
L'alternanza scuola lavoro è un tema fondamentale. I nostri docenti, che sono le nostre antenne, si rivelano, però, molto perplessi sull'attuazione della norma. E' necessario lavorare a convenzioni con le aziende più innovative del territorio e soprattutto costruire un ponte vero con le imprese, attraverso tutor preparati. Molto spesso i ragazzi e le imprese stesse sono disorientati, si disperdono potenzialità importanti. E' necessaria una progettazione comune con le aziende, si deve fare certamente meglio, puntando sulla qualità, non solo sulla quantità.  A partire dagli istituti tecnici e professionali del nostro territorio vanno poi rinnovati i laboratori, molto spesso obsoleti.

Un'ultima domanda. A chi si ispira, nel suo impegno sociale e sindacale, Alessandra Biagini?
Io vivo l'impegno sociale nel sindacato, ma per me è stata molto importante e formativa anche l'esperienza di oltre vent'anni come volontaria nella Croce Verde (ora forzatamente interrotta per mancanza di tempo). Dobbiamo tornare a valorizzare la centralità della gratuità dell'impegno: i volontari, i delegati, solo il vero volto del sindacato sui posti di lavoro, i nostri terminali di fiducia. Se devo pensare ad una figura di riferimento, mi sento di citare una persona, cui ero legata anche da parentela, scomparsa prematuramente l'anno scorso, quello che si potrebbe definire "un santo minore". Non si tratta di un sindacalista, ma di un imprenditore di Prato, Marco Cipriani, un esempio e una testimonianza, in quella città, del fare impresa in raccordo con la dimensione sociale del territorio. Marco si appassionava, anche nella sua azienda, nel fornire una seconda chance a chi, nella vita, era stato trascinato, espulso, in quelle periferie e marginalità esistenziali spesso citate da Papa Francesco. Anche noi dobbiamo riconoscere questi volti e queste persone, tendere maggiormente loro le nostre mani e le nostre energie. Tutto ciò è fondamentale anche per riscoprire l'importanza del valore emancipativo della dignità riconquistata attraverso il lavoro. Una dignità che si riconquista "insieme" e che è all'origine dell'esistere del sindacato, anche se qualche volta, anche noi, lo dimentichiamo. Proprio a Marco, oltre che ai miei collaboratori e collaboratrici volontari, ho pensato, il giorno della mia elezione.

Francesco Lauria

http://www.reportpistoia.com/pistoia/item/50802-alessandra-biagini-eletta-nella-segreteria-cisl-toscana-nord-fare-sindacato-tornando-alle-fondamenta.html

lunedì 7 agosto 2017

Verso un vivaismo della sostenibilità? 

Le proposte di Francesco Mati, presidente del Distretto


Il vivaismo e Pistoia: un binomio imprescindibile, quanto compless
Un’attività che rappresenta circa il 30% del PIL agricolo della Toscana, tanto che in regione risultano censite circa 3.600 aziende florovivaistiche che operano su una superficie di 7.240 ettari.
A farla da padrona è l’attività prettamente vivaistica che, con oltre 2.700 imprese e una superficie di circa 6.200 ettari, rappresenta il 6% del totale del totale della produzione dell’Unione Europea.
Pistoia è la “capitale” nazionale del florovivaismo, con 4800 ettari coltivati, 1200 imprese, 5000 addetti, oltre a quelli dell’indotto.
Incontriamo Francesco Mati, presidente del distretto vivaistico di Pistoia nella sua azienda: la Mati 1909.

Sono passati oltre due anni dalla sua elezione alla presidenza del distretto vivaistico. Quali sono stati, a suo parere, i principali risultati di questa porzione di mandato?
Dopo la presidenza Vannucci ci furono una serie di difficoltà nel rinnovo della presidenza del Distretto. Fui convinto dall’ex sindaco Bertinelli (per statuto vicepresidente del distretto stesso) ad accettare l’incarico, pur con l’astensione della Coldiretti, con cui gradualmente si sono appianate le divergenze. Le mie remore erano legate anche alla mia storia personale, legate alla realizzazione di giardini anche in Europa e nel mondo e solo in parte all’attività puramente vivaistica. Il Distretto ormai oltre dieci anni fa è nato e poi, purtroppo, non è stato dotato di strumenti per poter operare. La precedente presidenza ha fatto il possibile perché il Distretto mantenesse una sua rispettabilità. Con la mia presidenza, una volta appresi i meccanismi di funzionamento e resomi conto dei limiti dovuti al fatto che tutto dipende da una Provincia depotenziata, ho cercato di fare quello che potevo con l’unico mezzo possibile da usare: la comunicazione. Durante questi due anni ho dialogato con la Regione in conseguenza dei danni causati dalla bufera del marzo 2015, con il Distretto della Montagna per capire se fossero possibili collaborazioni e sinergie, con l’Assessore regionale Federica Fratoni per coinvolgere il Distretto in alcuni possibili progetti regionali legati all’ambiente, con il Comune di Firenze per il problema delle alberature da sostituire dopo la bufera di agosto 2015. Abbiamo poi cooperato con altri distretti e associazioni con i quali dopo due anni abbiamo dato vita al Coordinamento nazionale della filiera del florovivaismo e del paesaggio (www.cnffp.it) per dialogare con la politica di Governo nel tentativo di riqualificare il verde pubblico e privato in Italia, e realizzare altre iniziative legate direttamente o indirettamente all’attività vivaistica che, troppo spesso, si è presentata nel confronto con la politica e le istituzioni frammentata e divisa. Stiamo cercando, come è noto, di far inserire il giardino nel Pacchetto Casa, che prevede sgravi ed incentivi per chi ristruttura, arreda casa, sostituisce elettrodomestici, realizza verande tende e gazebo ma non per il verde. Lavoriamo con il Ministero delle Politiche agricole per affrontare i problemi fitosanitari, per la redazione del Piano di sviluppo del settore florovivaistico e la partecipazione a mostre ed eventi internazionali. Abbiamo dovuto affrontare un percorso complesso con il Comune di Pistoia, i sindacati, le associazioni di categoria a seguito della chiusura di una nostra importante azienda vivaistica – la Bruschi - e realizzato, lo scorso febbraio, il codice etico del vivaismo pistoiese. Un’altra attività in prospettiva è la cooperazione con l’istituto di ricerca Crea Of di Pesca per realizzare un protocollo d’intesa fra vivaismo e mondo della ricerca. Un tema importante, in rapporto con il Distretto della montagna pistoiese, è la sfida per il vivaismo pistoiese di non limitarsi alla produzione di piante ornamentali, ma di impegnarsi anche nella produzione di piante per il rimboschimento. Altro punto di impegno è quello dei controlli sul tavolo di filiera per il controllo delle importazioni al fine di evitare problemi sanitari epidemiologici potenzialmente molto gravi come quello della xilella che ha riguardato gli ulivi. Trenta aziende stanno sperimentando attività di autocontrollo proprio per evitare problemi di questo tipo.

E per il futuro?
Per il futuro ho una serie di sogni e di progetti per coinvolgere Pistoia e l’amministrazione pubblica pistoiese. L’obiettivo è di riqualificare il verde pubblico creando un progetto sperimentale su cinque anni attraverso un protocollo d’intesa tra pubblica amministrazione e aziende vivaistiche anche in deroga rispetto alle regole attuali di affidamento. Vogliamo prospettare nuovi schemi e possibili collaborazioni, nel rispetto dei ruoli. A livello nazionale il tema è quello di far ripartire la vendita di piante in Italia: il giardino da noi è considerato un bene di lusso, non è così nella maggioranza dei paesi europei. Un ultimo tema è quello legato all’imminente nuova legge regionale sui distretti che prevede, gradualmente, la trasformazione dei distretti in società, un cambiamento davvero consistente e ancora in gran parte da comprendere.


Nel febbraio 2017 avete approvato la Carta dei valori del Distretto vivaistico-ornamentale di Pistoia, un passo verso la responsabilità sociale di territorio. Quali sono gli strumenti di verifica della concreta applicazione della carta?
Un codice etico suggerisce atteggiamenti e comportamenti da tenere per svolgere attività produttive sul territorio. Non è un ente certificatore, i controlli sono effettuati da chi è preposto a farlo, che si tratti del Corpo forestale dello Stato, dell’Inps o di organi di controllo per certificazioni ambientali. Chi aderisce alla Carta dei valori s’impegna a seguire quanto viene indicato dalla carta stessa. E' un punto di partenza. Il distretto è fatto da persone che lavorano, con i calli sulle mani, onesti come lo sono, in linea di massima, gli agricoltori. Non escludo che ci siano anche i furbetti, ma la direzione generale è un altra. Da molti anni stiamo lavorando sulla sostenibilità ambientale, viviamo in tantissimi dentro le aziende, insieme alle nostre famiglie. C'è, senza dubbio, un problema, antico, di mancata comunicazione, insieme ad un dialogo tra le aziende che, ancora, si ferma purtroppo entro certi limiti. Noi siamo arrivati alla quinta generazione, speriamo di andare oltre. Il pensiero di lasciare a chi verrà domani un'azienda migliore di quella che abbiamo trovato, ci porta a rispettare il territorio. Io mi ispiro alla nota frase dei nativi americani: "La terra non è nostra, l'abbiamo avuta in prestito dai nostri nipoti". L'etica del vivaismo non distrugge l'ambiente in cui si sviluppa: non siamo estrattori di petrolio che lo sfruttano fino all'ultima goccia.

Il Cespevi. Come mai, a suo parere, la sua sopravvivenza appare sempre sul filo del rasoio?
Dopo tutto quello che è successo penso che il Cespevi appartenga già alla storia ed è arrivato il momento di dotarci di un approccio diverso alla ricerca. Un argomento non facile dato che molte aziende hanno fatto e fanno sperimentazione direttamente nelle proprie aziende. Dobbiamo lavorare per un vivaismo che dialoghi di più e che porti avanti progetti di ricerca utili a tutti. Più facile a dirsi che a farsi.

A che punto siamo con l’integrazione con il distretto floricolo della Valdininievole?
Il Distretto floricolo ha usi e costumi diversi da quello vivaistico, fonderli sarebbe a mio personale avviso un errore. Chi da tempo ha abbandonato la floricoltura per dedicarsi alla produzione di piante ornamentali rientra automaticamente nel Distretto vivaistico che è provinciale. E' sotto gli occhi di tutti che Pescia sia sempre più vivaistica e meno floricola. Con questa risposta non voglio negare l’importanza di una sinergia, soprattutto concentrata su ambiti di ricerca che possono essere certamente di comune interesse. La fusione, però, non è all’ordine del giorno.

L’A11 tra Pistoia e Prato mostra alcuni vuoti tra i vivai, segno di diversi fallimenti. Per quale motivi i vivaisti pistoiesi, almeno in maggioranza, sostengono la necessità di allargamento dei territori dei vivai, comprendendo, in particolare, i territori collinari?
Dopo la crisi profonda che ha colpito il mondo occidentale, in particolare l’Italia, con fallimento di importanti gruppi bancari, salvati con investimenti di miliardi di euro, diventa difficile poter fare previsioni. Non è un problema di dove piuttosto di come. Non si può pensare che un grande vivaio, che magari sta lentamente riconquistando mercati e fatturato, possa pensare di crescere andando a riempire piccoli spazi rimasti vuoti invece di potersi espandere nei luoghi dove l’attività è concentrata, anche se è a ridosso della collina. Il vivaismo è e rimane una forma di agricoltura avanzata, limitarne lo sviluppo, ovviamente rispettando tutti i vincoli, è costituzionale? Io, sinceramente, non lo penso.

Altri temi: il crescente consumo idrico e l’utilizzo del glifosato.
Due temi molto scottanti sui quali orde di “esperti de noantri” hanno detto tutto e il contrario di tutto demonizzando questo prodotto. Il Glifosate è stato inserito nella tabella di “probabilmente cancerogeno” in compagnia del caffè, della carne rossa e di molti altri prodotti che consumiamo abitualmente. Questo non vuol dire che si debba usare a sproposito, dalle analisi dei dati, risultano persistenti alcune sostanze additive che vengono aggiunte al prodotto per migliorarne l’efficienza. A oggi niente è efficiente come questo ormone di sintesi, sono state sperimentate molte tecniche “bio” dal pirodiserbo all’uso dell’acido pelargonico. Costose e poco efficaci. Oggi il suo uso è proibito e molte aziende stanno sperimentando prodotti innovativi, sono sicuro che presto arriveremo a prodotti maggiormente sostenibili. Ho lasciato per secondo l’argomento acqua, molto delicato. Le piante non consumano acqua, la traspirano rimettendola nell’ambiente. Il vivaismo usa da decenni (noi, come Mati, dal 1978) sistemi per il recupero delle acque usate in eccesso indirizzandole in bacini di raccolta che fungono da scorta per momenti critici. Da altrettanto tempo vengono utilizzati sistemi d’irrigazione a goccia che consentono risparmio di acqua e di energia mentre l’acqua usata per l’irrigazione spesso non è potabile. Ci dovremo chiedere, soprattutto, perché in Italia disperdiamo il 46% dell’acqua potabile a causa di condotte vecchie e fatiscenti.

Molti avevano identificato lei tra i possibili assessori di un secondo mandato della giunta Bertinelli. Che cosa vi aspettate dalla nuova amministrazione comunale?
Come è stato riportato dalla stampa, a suo tempo ringraziai, in una lunga conversazione, Samuele Bertinelli per l’offerta che rifiutai non ritenendo di avere le competenze politiche necessarie per fare l’assessore. Dal punto di vista del Distretto mi aspetto una continuità nel dialogo con la pubblica amministrazione. Con Bertinelli c’è sempre stato un dialogo aperto, un confronto ed un minimo di progettualità, portato avanti con l’aiuto del vice Sindaco Daniela Belliti. Con la nuova amministrazione, in particolare con Tomasi e l'assessore Risaliti, devo ancora incontrarmi ufficialmente. E' mia intenzione presentare discutere alcune idee e progetti maturati in questi ultimi tempi. Non credo ci saranno problemi: Pistoia ha molte potenzialità inespresse su cui potremo lavorare insieme.

giovedì 3 agosto 2017

Trasformare il tempo: tra ancore e nuvole, rivolta e “prendersi cura”


Alcuni anni fa decisi di far iniziare il mio libro sulla bellissima esperienza sindacale delle 150 ore per il diritto allo studio con un vecchio racconto di Gunther Anders[1]. Quella delle 150 ore è stata una vicenda davvero eccezionale per il movimento operaio italiano, di cui aspiravo e asipiro a contribuire a conservare memoria, echi, soffi di prospettive sul presente e sul futuro.
Il racconto scelto ruotava attorno ad una storia antica - presente in tante culture e non solo in quella ebraico/cristiana - la vicenda mitica di Noè e del diluvio universale, facendo tesoro delle riflessioni che, su questa stessa narrazione, sono state ricavate da Jean-Pierre Dupuy[2] e da Marco Deriu[3].
Racconta Anders: «Poiché Noè era ormai stanco di fare il profeta di sventura e di continuare ad annunciare senza tregua una catastrofe che non arrivava e che nessuno prendeva sul serio, un giorno si vestì di un vecchio sacco e si sparse della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi piangeva il proprio figlio diletto o la sposa. Vestito dell’abito della verità, attore del dolore, ritornò in città, deciso a volgere a proprio vantaggio la curiosità, la cattiveria e la superstizione degli abitanti. Ben presto ebbe radunato intorno a sé una piccola folla curiosa e le domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era il morto. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose “Domani”. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noè si erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: “Dopodomani il diluvio sarà stato, tutto quello che è non sarà mai esistito. Quando il diluvio avrà trascinato via tutto ciò che c’è, tutto ciò che sarà stato, sarà troppo tardi per ricordarsene, perché non ci sarà più nessuno. Allora, non ci saranno più differenze tra i morti e coloro che li piangono. Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi.” Dopodiché se ne tornò a casa, si sbarazzò del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo e andò nel suo laboratorio. A sera un carpentiere bussò alla sua porta e gli disse: “Lascia che ti aiuti a costruire l’arca, perché quello che hai detto diventi falso”. Più tardi, un copritetto si aggiunse ai due dicendo: “Piove sulle montagne, lasciate che vi aiuti, perché quello che hai detto diventi falso” ».
Dupuy ci invita a leggere questo racconto di Anders pensando al fatto che la nostra possibilità di pensare il cambiamento debba rimettere in gioco la stessa nozione di tempo, passando da una concezione lineare e progressiva a una circolare che riallaccia futuro e presente, futuro e passato.
Il futuro, infatti, è prodotto dagli atti che abbiamo compiuto nel passato o che compiamo nel presente, mentre il modo in cui agiamo è determinato dalla nostra anticipazione del futuro e dalla reazione che abbiamo di fronte a questa anticipazione.
Oggi viviamo in tempi in cui l’ideologia del presente e dell’istantaneo sembra cancellare sia la memoria che il desiderio di cambiamento e di futuro.
Il presente non è solo immanente: è fragile e attraversato dalla paura, non una paura frutto del riacquisire consapevolezza, come nel racconto di Noè rivisto da Anders, ma che scaturisce dal vuoto della speranza.
Un bel libro di Fr. Alberto Degan[4] mi ha fatto ricordare di come gli indios dell’Ecuador chiamino il tempo che viviamo Yakipachi, cioè il tempo della tristezza, il tempo in cui il mondo è capovolto rispetto a quello che era il progetto originario di Dio: il tempo dell’egoismo, della distruzione della Natura, della libertà dei popoli calpestata, di un’economia vorace che alimenta la miseria.
In realtà, come ci ha ricordato Martin Luther King, proprio grazie alla sua circolarità, ogni tempo, in se stesso è neutrale, spetta a noi fare del tempo in cui viviamo un tempo di grazia o un tempo di disgrazia.
Ci sono avvenimenti, incontri, prese di coscienza individuali e collettive, che trasformano il “tempo della schiavitù nel tempo della liberazione”, per riprendere ancora Degan.
E’ questo, come ci insegnano gli indigeni, il senso del credere e immergersi nella trasformazione possibile del Yakipachi, nel Pachakutik, il tempo della grazia.
Oltre quindici anni fa ebbi il privilegio di scrivere con una giovane ricercatrice italo-ecuatoriana, Antonella Spada, un dossier sulla voce del movimento indigeno, pubblicato dalla rivista Missione Oggi[5], proprio nei giorni del G8 di Genova.
Antonella scovò questa bella citazione sul suo paese, allora stretto tra dollarizzazione, dettami suicidi del Fondo Monetario Internazionale, classi dirigenti che “ballavano sulla miseria”, ma anche un’eccezionale rete di resistenza, che faceva perno sulle Conaie, il coordinamento dei movimenti indigeni, tra rivendicazioni, “levantamientos”, rivoluzionarie proposte di rinnovamento. 
Questo piccolo paese, che, insieme al petrolio e alle Galapagos, ha una miniera di dignità, che fiorisce ogni mese di gennaio, con la luminosità di una rosa”.
La parola d’ordine che gli indigeni lanciavano era, appunto, Pachakutik” che significa il “ritorno dei tempi nuovi”, un ritorno da vivere attivamente costruendolo con millenaria pazienza e caparbietà, nella certezza che arriverà, E’ per questo che, molte volte, per il movimento indigeno le sconfitte significano a lungo termine trionfi, significano un incremento di risultati perché la “dinamica indigena” non è uguale a quella occidentale, molte volte tarda e aspetta, ma, come dicevano Athaualpa e Tupac Amaru  “Me voy, muero, pero seremos millones”. (“Me vado, muoio, ma quando ritornerò saremo milioni”).
Vivere la consapevolezza dell’intreccio tra passato, presente e futuro, con la concretezza che spesso è dei poveri, dei deboli, come sono la grandissima parte delle popolazioni indigene, è la nostra possibilità donata di imparare “a trasformare il tempo”, immergerci, anche da occidentali, nel nostro kairòs, quel “tempo opportuno” che è fuori e dentro di noi.
E’ dall’incontro con le persone “ponte” che ho visto come sia possibile, nella vita personale e sociale, costruire l’attesa attiva  e circolare del Pachakutik nel kairòs.
Avere cura (in spagnolo “cuidar), dei nostri sogni e della nostra capacità di resistenza (che poi significa anche avere cura di noi stessi e delle nostre anime) mettendo in campo concretezza e fantasia, prosa e poesia, ma soprattutto ricostruendo una capacità di relazione cooperativa, solidale, ponti di comunione e di dialogo, anche nelle diversità.
La sfida vera è riscoprire la capacità di amarci nell’altro e di riconoscere l’altro che c’è in noi.
Le migrazioni sono, in questo senso, una grandissima occasione, anche se ci troviamo non troppo distanti da un diluvio che è insieme tormento e opportunità, come l’antico, presente e futuro, racconto di Noè ci ricorda, inesorabilmente.
Tutti noi, però, possiamo contribuire a cambiare il corso della storia e trasformare il tempo, avendo cura di ciò che ci è stato donato, non per i nostri figli, ma, come scrivevano altri “indigeni”, per i nostri nipoti.

Francesco Lauria





[1] Anders G. L’uomo è antiquato. 2. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992 (1980)
[2] Dupuy J.-P., Piccola metafisica degli tsunami, Donzelli, Roma, 2006
[3] In Bosi A. Deriu M., Pellegrino V. Il dolce avvenire. Esercizi di immaginazione radicale del presente, Diabasis, Reggio Emilia, 2009
[4]DEGAN A. Trasformare il tempo. Lettere agli amici dall’Equador. Padova, 2005.
[5] SPADA A. LAURIA F. “Storia di un paese plurinazionale”, Dossier. Missione Oggi, Giugno-Luglio 2001.