sabato 30 settembre 2017

LA MANO CHE ENTRA IN CONTATTO CON LE COSE
La main que entre en contact avec les choses

Iniziare, l'inizio.

PROLOGO. IL LEGNO E IL LAVORO DELL'UOMO
(tratto da Anna Granata, Chiara Granata, Elena Granata: "Sapere è un verbo all'infinito", Il Margine Editore)

Un uomo tutte le mattine apre la finestra e si affaccia sul proprio campo. Guarda gli alberi che vivono, lenti crescono, trasformano il proprio tronco in foglie e le proprie e le proprie foglie in frutto. Siccome anche lui è vivo non rimane a guardare, ma esce nel campo e sdraia il proprio corpo sulla terra nuda. Ne percepisce la forza umida e ne rimane rassicurato. Alla sera raccoglie le foglie secche e i frutti che il metabolismo del campo ha dimenticato e li porta con sé nella casa.

Il giorno dopo il sole è più caldo, la terra si spacca inqueta, gli alberi attendono. Siccome l'uomo conosce la sete, si avvia al ruscello, raccoglie l'acqua e la conduce al campo. Le ferite della terra si rimarginano, gli alberi lasciano cadere gli stessi frutti del giorno precedente, ma l'uomo stasera sa che quei frutti sono per lui. Li porta a casa e li mangia come ricompensa del proprio lavoro. Sente la stanchezza del corpo che ha partecipato alla fatica e alla pena, ed è questo per lui una specie di felicità.

Viene l'inverno e la casa dell'uomo è fredda. L'uomo esce nel campo, ma questa volta non è il suo corpo a prendersi cura degli alberi. Sono piuttosto le mani che stringono con vigore un'accetta. L'uomo ne conosce la forza mentre sottrae il legno alla vita dell'albero. A sera mente consumo il frutto del lavoro non sente la stanchezza del corpo, ma nelle mani la soddisfazione di poter fare.

Da quel giorno una parte della vita dell'albero è sottratta dall'uomo: non diventerà foglia e frutto, ma sarà trasformata in sedia, tavolo, credenza, cucchiaio. In poco tempo la casa si riempie di oggetti, con forme sempre più adeguate, le sue mani si fanno più capaci. Mentre dorme però la natura entra silenziosa nella casa a riprendersi il legno per riportarlo alla terra umida.

Una mattina l'uomo apre la finestra e si affaccia sul proprio campo; non è più il bisogno, il freddo o la sete a spingerlo ad uscire. Ha con sé l'accetta e sa dove trovare l'albero più bello. Ne prende il legno vivo per intagliarlo. L'opera delle sue mani prosegue per molte ore e quel giorno dimentica di raccogliere i frutti della terra. Quando ha terminato l'opera chiama i figli dalla casa e li raduna attorno a sé. Quella sera non mangeranno: ascolteranno nella casa il suono del violino.

(Racconto liberamente ispirato da Vita activa di Hannah Arendt).


domenica 24 settembre 2017


OLTRE L'OBBEDIENZA E LA MERITOCRAZIA.
 A margine di un primo di giorno di scuola speciale e di un Vangelo scomodo, tra Ermal Meta, Don Milani e Matteo.

"Per disobbedire bisogna conoscere, bisogna sapere, bisogna studiare.
Solo attraverso la cultura si può imparare a dire dei sì, magari dicendo di no".
"Attraverso il processo di studio e di conoscenza, impari a conoscere te stesso.
C'è sempre spazio dentro di noi, per tutto quello che c'è stato e quello che c'è.
La cultura è crearsi dei varchi nella vita. Come tante piccole finestre, più cose sai, più finestre hai attraverso cui guardare il mondo."
 
E' bellissima la versione orchestrale di Vietato Morire, suonata di fronte ai "novelli studenti", così come profonde sono le riflessioni offerte ai bambini, ai ragazzi, agli insegnanti da Ermal Meta in Puglia, sua prima terra adottiva.
Un modo bellissimo di iniziare il primo giorno di scuola.


Quando ho ascoltato, per la prima volta, Vietato Morire", pur con la parziale contraddizione che un bel libro di Piergiorgio Reggio sintetizza con lo: "Schiaffo di Don Milani", ho pensato a due testi: ovviamente: "Lettera a una professoressa", ma anche: "L'obbedienza non è più una virtù".
Anche l'immagine di Ermal Meta, a scuola, un po' secchione, che però fa copiare i compagni si accompagna bene al Vangelo di oggi (Matteo) e al commento che, sempre riecheggiando Don Milani e con una non comoda riflessione sulla "meritocrazia" ci regala Don Umberto Cocconi.

Posto qui sotto, con il testo che viene commentato da Don Umberto.

Gesù disse ai suoi discepoli «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna … Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Vangelo di Matteo).

L’odierna parabola di Gesù è un invito a fuggire la meritocrazia, a non vivere la vita con competizione, nella concorrenza ossia cercando di primeggiare.

Il padrone della vigna al momento della paga inaspettatamente azzera il confronto tra tutti gli operai venuti a lavorare e riconosce a tutti il medesimo compenso. Ciò che per il padrone conta è che l’operario abbia accettato l’invito a lavorare nella vigna. Quelli della prima ora non hanno compreso il privilegio, il dono che hanno ricevuto e ora non accettano di perdere la loro posizione: cercano e vogliono infatti mantenere la distanza da quelli che non ritengono meritevoli di un tale compenso.
Loro sì che hanno lavorato e faticato sin dal mattino presto sotto il sole, gli altri invece non hanno fatto niente e quindi non meritano nulla. Ciò che li infastidisce è il fatto che il padrone li abbia trattati come tutti gli altri. Quelli dell’ultima ora sono stati resi uguali a quelli della prima ora, e questo è ai loro occhi uno scandalo, un’ingiustizia. Non li indispone il fatto di non aver ricevuto più degli altri, quanto piuttosto che gli operai dell’ultima ora siano stati equiparati a loro, operai della prima ora.
Gli uomini giusti pensano che Dio debba premiare chi lo merita, ma in realtà una simile teologia non farebbe altro che imprigionare anche Dio dentro la logica meritocratica. L’origine della religione meritocratica è molto antica e ancora oggi, in una società secolarizzata, come la nostra il merito è la principale ideologia. Possiamo infatti constatare come merito e meritocrazia siano parole all’ordine del giorno del dibattito politico e sociale contemporaneo, e come attorno ad esse circoli un’aura di sacralità condivisa dai più disparati orientamenti politici. Onori, ricchezze, riconoscimenti e cariche vengono spesso attribuiti a coloro che li meritano.
Perché - qui sta il punto - chi parla di merito parla di colpa, e chi parla di premio parla di castigo.
Se a parole la meritocrazia promette di esaltare i migliori, nei fatti esiste solo per sanzionare i peggiori - individuati di volta in volta secondo il capriccio e gli interessi del dominus. Secondo queste logiche coloro che sono disoccupati e “nessuno vuole” sono coloro che sono considerati demeritevoli, passabili di condanna, emarginati e colpevoli. Se nessuno li vuole a lavorare nella vigna vuol dire che non sono dei bravi operai!
Nella scuola di oggi chi mette in discussione il suo impianto meritocratico? Vengono in mente le parole di don Milani nella sua famosa “Lettera a una professoressa”: «Se ognuno di voi (maestri e professori di scuola) sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni (il figlio dei poveri che va male a scuola). Cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messo certo eguale agli altri. Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie.
Vi svegliereste la notte col pensiero fisso su lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna». Sulla base dei meriti e dei voti scolastici non abbiamo forse costruito tutto un sistema sociale ed economico gerarchico e castale? Dove nei primi posti stanno coloro che rispondono meglio a quei meriti e negli ultimi quelli che a scuola ottenevano performance peggiori?
«Se oggi volessimo spezzare la spirale di ineguaglianza e di esclusione dovremmo dar vita a politiche educative anti-meritocratiche» (Luigino Bruni).
 
Decidere del merito presuppone che «possiamo giudicare se gli individui hanno sfruttato le loro possibilità come avrebbero dovuto, e quanta forza di volontà o di abnegazione sia loro costato; presuppone anche che sappiamo distinguere tra quanta parte del loro successo sia dovuta a circostanze che dipendevano da loro e quanta invece sia da esse indipendente» (Friedrich Hayek).
Ieri come oggi le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché scardina le gerarchie e libera le persone dalla schiavitù dei meriti e dei demeriti. La misericordia è l’opposto della meritocrazia, non siamo perdonati perché lo meritiamo, ma è proprio la condizione di demerito che commuove le viscere della misericordia divina.  (Don Umberto Cocconi)

Francesco Lauria

mercoledì 20 settembre 2017


DOMENICO PAPARELLA: una lezione esemplare di vita, attraverso il lavoro



Il 20 settembre 2017 Domenico Paparella avrebbe compiuto settanta anni.

I collaboratori del Cesos, il Centro Studi Economici Sociali e Sindacali, promosso dalla Cisl, che questo “operaio, sindacalista, intellettuale”, guidò fino alla morte, nell’estate del 2009, ricordano bene la data e le ottime crostate alla frutta che lui stesso cucinava e portava in ufficio ogni anno, in quell’occasione.

Pur con un’umanità non semplice da decifrare ai primi incontri, Paparella credeva davvero nei giovani e su di loro scommetteva e investiva molto. Per noi ricercatori e collaboratori, è stato un maestro, una guida, un testimone che è impossibile dimenticare.

Non lo deve fare nemmeno la Cisl, e ciò è la ragione principale, oltre ai sentimenti, di questo scritto.

Non va dimenticata la passione per le relazioni industriali, nel senso ampio del termine, il saper collegare l’esperienza diretta di attore delle relazioni di lavoro e una rielaborazione scientifica mai separata dalle dinamiche concrete.

Paparella era nato nel 1947 in Basilicata, da famiglia poverissima che, dopo varie vicissitudini, si era trasferita a Genova.

Ed a Genova, quindicenne, entrò all’Ansaldo, a sedici anni iniziò l’impegno sindacale e si formò con l’ingresso nel’66 in un comitato paritetico aziendale.

Nel ’71, fu chiamato da Carniti a Roma, a occuparsi dell’Ufficio sindacale dei metalmeccanici, fu componente della Segreteria n.le dell’FLM e segretario organizzativo nazionale (e “ricostruttore”) della Fim-Cisl.

Paparella era stato segretario nazionale della Fim-Cisl tra il 1977 e il 1986, anni cruciali per metalmeccanici che condussero, nel 1984, alla rottura della FLM unitaria.

Dopo aver ricoperto cariche molto importanti nel sindacato aveva saputo costruire un solido percorso di ricerca, con periodi di approfondimento all’estero.

Andrebbero riletti i suoi articoli (in particolare sull’Olivetti) nella rivista “I Consigli” che contengono ancora, dopo quarant’anni, elementi di grande interesse.

Si deve anche a lui l’apertura, nel 1979, del celebre “Romitorio” per la formazione, ad Amelia.

Passato in confederazione fece parte a cavallo degli anni Ottanta e Novanta del Tuac, organismo sindacale dell’Ocse e divenne, nel 1989, Segretario del Cesos.

In uno dei suoi ultimi saggi, a introduzione del libro curato con il Presidente del Cesos Guido Baglioni: “Il futuro del sindacato”, scriveva: “La valorizzazione delle persone deve essere collocata pur sempre nel riconoscimento di appartenenze e scelte sociali più ampie. Per il sindacato la sfida è dare il senso all’agire dell’individuo, dargli il crisma di legittimità sociale. Per evitare la “miopia sociale” il sindacato è chiamato a produrre risorse etiche e morali a cui gli individui possano fare ricorso. L’individualizzazione può essere regolata attraverso un mix efficace di azioni di mercato, dalla mano pubblica e da istituzioni solidaristiche e trovare fondamento e legittimità in una regolazione collettiva. Il sindacato può assumere un ruolo di ricomposizione sociale ed essere il luogo di riconoscimento delle individualità in una logica solidaristica e legittimante. Deve riconsiderare i confini della sua rappresentanza per includere le figure sociali e lavorative marginali e discontinue e le nuove forme di lavoro autonomo per le quali si ripropone il primato dell’appartenenza alla professione. La crescita della dimensione individuale pone perciò al sindacato, e alla Cisl in particolare, la necessità di irrobustire la sua natura associativa”.

Nel parlare di accerchiamento sociale Paparella ricordava il tema di una dimensione contrattuale che superasse i confini nazionali e irrobustisse la tutela del lavoro nella globalizzazione dei mercati e della produzione. Aveva molto investito sul tema delle relazioni industriali europee attraverso l’intensa progettazione transnazionale del Cesos e la collaborazione strutturata con la Fondazione di Dublino.

Un anno prima di morire aveva terminato anche una riflessione molto approfondita sull’evoluzione del modello organizzativo, sul “divenire” della Cisl.

Un testo cui teneva molto e che, si lamentava, non era stato sufficientemente preso in considerazione. In esso si affrontavano i fondamenti dell’identità cislina, a partire dalla rottura della CGIL unitaria e dall’affermazione della nozione di un sindacato fondato sull’autogoverno delle categorie. Una concezione che si confrontò con l’applicazione pratica dell’azione sindacale e contrattuale in contesti molto diversi: dai settori industriali, al lavoro pubblico, dal settore agricolo, ai servizi. Affrontava la peculiarità del sindacato industriale nella confederazione cislina e l’evoluzione della struttura sindacale territoriale, oltre che la crescente importanza della dimensione internazionale. Concludeva con una serie di proposte e una considerazione di fondo: l’impianto regolativo che il sindacato aveva elaborato negli anni di massima affermazione dell’industria fordista riguardava ormai meno della metà dei lavoratori.

Temi declinati in innumerevoli iniziative, spesso portate avanti a livello territoriale, si pensi a Rubens: progetto di sistema per programmazione, monitoraggio, valutazione e gestione dei servizi di orientamento, impiego, incrocio domanda offerta, supporto a disoccupati e fasce deboli, in uso presso i Centri per l’impiego liguri.

Scriveva: “L’organizzazione deve prefigurare alcune linee guida evolutive degli assetti organizzativi sulla quale interrogarsi ed agire:

a) la ricomposizione della rappresentanza e della tutela contrattuale del lavoro standard e non standard è possibile in ambito territoriale in una logica intercategoriale. (…)

b) la devoluzione di poteri fa assumere agli attori istituzionali periferici un ruolo centrale nella determinazione della qualità della vita dei cittadini. La confederalità, espressa dalle strutture orizzontali e la loro capacità di creare “coalizioni sociali” per l’attuazione di efficaci politiche di welfare, costituisce un patrimonio di esperienze da sviluppare in un’ottica di accentuata specializzazione del loro ruolo;

c) l’assetto plurisettoriale delle categorie deve corrispondere alle esigenze di governo dei processi di sviluppo e di regolazione pattizia delle condizioni di impiego per filiere economiche ampie per le quali la capacità di intervento nelle politiche di sviluppo ai livelli nazionale ed europeo è strettamente connessa all’organizzazione della rappresentanza, all’assetto della contrattazione collettiva ed alle pratiche partecipative realizzate nelle imprese e nei territori;

d) la centrale confederale deve sempre più, spogliandosi dei compiti impropri di supplenza, affermare la sua funzione di sintesi politica e culturale dell’organizzazione, di struttura in grado di produrre cultura ed identità, di assicurare la rappresentanza di tutto il mondo del lavoro e di partecipare alla governance generale del sistema Italia nella dimensione europea. (…)

Collegava, quindi, la partecipazione dei lavoratori allo sviluppo della bilateralità e alla riforma della contrattazione.

Su Conquiste del Lavoro nel 2007 affermava: “la riforma degli assetti contrattuali non può più essere considerata una pratica amministrativa: si tratta di una vera e propria vertenza cui è necessario dare impulso mediante la mobilitazione dei lavoratori. (…) Il decentramento della contrattazione costituisce un elemento strategico per il rilancio della produttività e di una politica di alti salariali. L’assenza di contrattazione collettiva ha avuto rilevanti implicazioni sulla capacità d’intervento collettivo sull’organizzazione del lavoro, sulla mobilità professionale, sui criteri di valutazione e di remunerazione, sull’accesso alla formazione continua.”

Concludeva con l’autonomia dalla politica: “la riforma degli assetti contrattuali costituisce un’occasione per spostare decisamente il baricentro della strategia del sindacato italiano, e della Cisl in particolare, dal “cielo” della politica all’attenzione alle condizioni materiali di lavoro e alla sua remunerazione che costituiscono, a ben vedere, fin dalla sua fondazione, la sua stessa ragion d’essere”.

Per anni aveva collaborato con la Società Biblica Italiana: è stato, come ha sottolineato Guido Baglioni: “un credente che ha vissuto la sua vita fino in fondo”.

Domenico Paparella terminò la sua esistenza terrena, dopo aver affrontato con fede e determinazione una straziante malattia legata al suo lavoro di tanti anni prima, quando maneggiava l’amianto. Un frammento infinitesimale, ha scritto Raffaele Morese che: “una mattina, saldando nella sua fabbrica (l’Ansaldo di Campi, a Genova, che ora non c’è più) deve essergli entrato nei polmoni – dopo quasi quarant’anni, si era svegliato”.

Ricordarlo oggi, a quasi dieci anni dalla scomparsa, significa non rinunciare a raccogliere il suo esempio per chi cerca di attraversare nuovi sentieri con lo stesso obiettivo: “umanizzare, stabilizzare, professionalizzare, democratizzare, equilibrare” le relazioni di lavoro.

Senza paura di percorrere strade innovative, mettere in discussione paradigmi consolidati, con la consapevolezza dell’importanza di studio e sperimentazione.

Buon compleanno Domenico.

Portiamo, in noi e nella Cisl, il ricordo incancellabile di chi, in fabbrica, in uno dei sindacati più grandi d’Europa (la FLM), nei centri di ricerca, nelle lotte con gli ultimi, (come dimenticare le mobilitazioni emancipatorie con i ragazzi non vedenti a Genova?), e, infine, nel coraggio di affrontare una malattia infima e dolorosa, ha offerto una testimonianza indimenticabile di vita e di lavoro.  Ti portiamo nel cuore e cerchiamo, imperfettamente, di trasferire ciò che hai insegnato nel nostro impegno quotidiano.

Francesco Lauria, Manuela Mansueti, Anna Rosa Munno, Flavia Pace, Luana Petrillo, Vilma Rinolfi, Alberto Gherardini

Pubblicato su Conquiste del Lavoro del 20 settembre 2017.

sabato 16 settembre 2017

L'OVERBOOKING E IL LAMPADARIO DI CRISTALLO 


In quel momento ci siamo guardati negli occhi.
Dopo tanto frastuono, eravamo rimasti solo noi e le due hostess di terra di Austrian Airlines. Ciascuno si portava con sè una storia diversa e un diverso viaggio alle spalle. Cinque uomini e una donna, quest'ultima dalla parlata toscana e il nome slavo.
Un solo posto, per salire sul Vienna Bologna. Una sola chanche per tornare in Italia entro la mezzanotte.
Tutti rinunciano, ascoltando la mia storia.
Solo uno, mio coetaneo, sembra resistere, racconta che all'indomani la figlia deve iniziare la prima media e che, nemmeno lui, c'era il primo giorno della sua prima elementare.
Poi cede, non senza uno sbuffo, guardandomi negli occhi.
La mia terra promessa è , in realtà, un volo che arriverà nella notte a Bologna e poi una serie di improbabile di incastri tra Flixbus e mezzi notturni, per arrivare a Pistoia in tempo, l'indomani mattina presto.
Nemmeno il tempo di gioire e avvicinare l'imbarco che, come un fantasma, meglio un naufrago, uno scherzo del destino, arriva un altro passeggero, con diritto di salita.
E' giovane, barbuto, spettinato, affannatissimo, continua a correre.
Viene dalla tempesta di Amsterdam, quella che io avevo dovuto evitare, virando da Varsavia a Vienna. Due ore di ritardo e un minuto di anticipo.
Su di me.
Nella sorpresa totale delle hostess scansisce la sua carta di imbarco e, ancora correndo, entra, ultimo, verso l'agognato aereo.
Siamo ancora sei, tutti a terra, e stiamo per iniziare un'altra incredibile, stravagante, a tratti, estenuante, avventura.
Ci avviamo tutti insieme al primo dei corner cui ci invia la compagnia aerea.
Ci chiude davanti.
Inizia un incredibile peregrinare che approda ad un enorme coda che, però, si dirige verso una hostess italiana.
Fa per prenderci in considerazione, ma la rivolta vichinga dei naufraghi del cielo di Oslo, in fila da prima di noi, ci stronca sul nascere.
Il tempo passa, inesorabile.
Veniamo rimpallati da un desk all'altro, fino all'ufficio principale in cui a centinaia sono in fila, prima di noi.
Il vento e gli overbooking hanno fatto andare letteralmente in tilt tutto l'aeroporto di Vienna.
E' bello vedere chi, tra noi reduci del mancato imbarco, si prodiga con generosità e un po' di confusione, prima per gli altri che per sé.
Un po' alla spicciolata, dopo una serie irraccontabile di inefficienze, ma anche di creatività italo-emiliana in perfetta tensione con le rigidità teutoniche, riusciamo a conquistare almeno un albergo e un taxi per la notte, già fonda.
Condivido questa parte dell'avventura con Pietro, uno dei sei, imprenditore sassuolese della ceramica, in arrivo da un volo andata e ritorno in giornata da Riga.
Recuperiamo un tassista turco semiabusivo e arriviamo, quasi alle due di notte, al maestoso hotel Intercontinental nel cuore di Vienna.
Il caffè dell'albergo è ancora aperto, non chiude praticamente mai.
In un'atmosfera surreale, tra piloti, hostess, altra bizzarra umanità, danze mediorientali, saltiamo i superalcolici elaborati e conquistiamo due hamburger, alti come grattacieli e due birre artigianali.
Sopra il bancone e tutta questa compagnia un enorme lampadario di cristalli, figlio di un altro tempo, ma entrato nel nostro.



Piano, piano, con Pietro, ci raccontiamo frammenti delle nostre vite. Il taxi che, alle 4.30, ci riporterà all'aeroporto alla ricerca dell'imbarco per Malpensa (unica soluzione possibile per noi) è distante solo un paio d'ore.
Ma anche l'aurora non risparmia le sue fatiche all'inesorabile ticket counter di Austrian Airlines.
Riusciamo, tutti e sei, l'unione fa la forza, a far valere, almeno un po', i nostri diritti, ottenere, non senza scoscese salite, un biglietto che ci avvicina a casa e una promessa di risarcimento.
Il dialogo  con Pietro, non si interrompe, fino a Milano Centrale, quando le nostre strade si dividono.
Parliamo di impresa e lavoro, rappresentanza e ceramiche, grande distribuzione e internazionalizzazione, ma anche di dune dell'Oman, delle chiese di Pistoia, di presenze e assenze, di fatica e di figli, di amore e passioni, politica e biciclette, Nek, Kerakoll e Medjugorie.
Alla fine, del nostro viaggio comune, dialogando sulla bellezza delle donne baltiche, scopro il motivo della sua malinconia discreta.
Un grande amore è scivolato via, nel cielo. Troppo presto.
Non si può dimenticare.
Ci salutiamo, finalmente sorridiamo, siamo vicini alle nostre mete.
Io proseguo il mio interminabile cammino.
Tutto fila, incredibilmente liscio, fino a Pistoia, dove trovo un altro aiuto, inaspettato e generoso.
Arrivo, sfacciatamente, un minuto prima dell'uscita di Jacopo dal suo primo giorno di scuola.
Mi vede, mi abbraccia, un po' disorientato, ma già grande.
Almeno per me.
La confusione dell'aeroporto, nella mente, si fonde con quella dei bambini e delle mamme apprensive, fuori dai cancelli della scuola.
Jacopo mi guarda.
E io sono felice.

Francesco Lauria

lunedì 11 settembre 2017


RITROVARE IL TEMPO E LA COMUNITA' SMARRITA.
Riflessioni notturne, alla vigilia di un viaggio ai confini d’Europa, prima dell’Apocalisse.

http://www.reportpistoia.com/agora/item/51603-ritrovare-il-tempo-e-la-comunita-smarrita.html

Chi deve interpretare il tempo che resta per ritrovare una bussola nella comunità smarrita?

Alla vigilia di una serie di viaggi “sindacali” in Europa è questa la domanda notturna che risuona, analizzando quella che Aldo Bonomi ha definito, riecheggiando Bauman, “liquefazione spaziale”.

Questa perdita della solidità e relazione si ritrova anche a cospetto della rilevante perdita di capacità di trasformare il lavoro, nelle sue varie e non sempre catalogabili forme ipermoderne,  in soggettività collettiva attiva e solidale.

Lo sguardo, in particolare se si rivolge all’Europa strappata di questo tempo, rimane sospeso nelle “vicissitudini dell’io”, ripetuto nazione per nazione, incapace di rielaborare, uscendo da sé, un noi inclusivo, in cui riconoscersi, essere riconosciuto e, infine, riconoscere.

Ci perdiamo, naufraghiamo come singoli e collettività, nell’incapacità di ritrovarci, pensiamo di costruire nuovi recinti, nuove illusorie e falsamente rassicuranti comunità chiuse, a volte, le trasformiamo, persino in “comunità maledette”, nonostante il monito che le guerre “fratricide” dei Balcani avrebbero dovuto imperituramente lasciarci.

Nella gassosità delle relazioni liquide, ma anche nel tempo di una globalizzazione supersonica, l’Unione Europea e i suoi popoli sembrano aver perso sia il concetto del tempo che quello dello spazio, continuiamo a intuire quando sia importante “appartenere”, ma siamo orfani della prossimità che si fa sguardo condiviso e d’orizzonte.

Cerchiamo, come ha scritto Marco Revelli, un “Noi certificato”, dove la domanda di sicurezze identitarie si confronta con la pratica delle esperienze plurime e precarie e della disseminazione e scomposizione valoriale, senza comprendere che la libertà, non è distanza o dominio, ma relazione.

Risuona fortissima l’immagine della scomposizione in semplice area di libero scambio per le “cose”, le “merci” e non per le persone, della (Comunità), per ora Unione Europea.

Una Comunità che era nata certo, anche su basi economiche, ma che è stata costruita da uomini di frontiera, dal tessuto di relazioni di tante piccole comunità, non più in lotta, ma alla ricerca di legami e relazioni nuove.

Penso a due grandi figure, indimenticabili eppure, almeno parzialmente, dimenticate, uomini di pace, con cui, in particolare con la seconda, ho avuto occasione di confrontarmi, ascoltare, imparare, ammirare, mutare lo sguardo: Umberto Serafini e Gianfranco Martini.

Umberto Serafini, padre fondatore del Consiglio dei Comuni (e poi anche delle Regioni) d’Europa, è stato un alfiere fondamentale, ispiratore e realizzatore del contributo sempre più rilevante portato dagli enti locali e regionali alla costruzione di un’Europa unita e federale e contribuì, insieme ad Altiero Spinelli ed Alexandre Marc, a guidare quel “fronte democratico europeo” che si batté duramente e con successo nella lotta per l’elezione popolare diretta del Parlamento europeo.

Gianfranco Martini oltre che uno dei più ironici e dolci dirigenti “sociali” che io abbia mai conosciuto ci ha regalato una vita fatta di impegni internazionali nel segno della costruzione dell'Europa dal basso, popolare, non nazionalista. Anche nella creazione della rete, durante la tragedia dei Balcani, delle “Ambasciate della democrazia locale” ha sempre creduto in una visione dell'Europa nello stesso momento alta (riforma delle istituzioni) e bassa (l'Europa delle città e dei cittadini).

Serafini e Martini hanno creduto, fin dalla fine degli anni quaranta, nella politica del gemellaggio tra comuni europei che è stato uno dei punti di forza di questa visione politica d'insieme. I gemellaggi, sono stati uno straordinario mezzo concreto per costruire una rete di solidarietà e di pace, quella pace per cui, anche se forse lo abbiamo dimenticato, l’Unione Europea ha ricevuto il Premio Nobel.

Fu Gianfranco Martini a ispirare il titolo della mia tesi di laurea, scritta sul campo, nel buco nero d’Europa, la “comunità maledetta” di Prijedor, nella repubblica serba di Bosnia: “la diplomazia dell’Europa minore”. I gemellaggi e poi, con un’esperienza allargata alla società civile, al sindacato, al terzo settore, le ambasciate (ora agenzie) della democrazia locale, sono state una vera forma di diplomazia popolare espressa nell’Unione Europea e al di fuori, nei confini prossimi, come i Balcani e il Caucaso.

Allora quali risposte l’uomo, ma anche la politica, il sindacato, possono provare a dare per ritrovare una “comunità operante”, ritrovata, la comunità che “viene”?

Proprio pensando a figure come Umberto Serafini e Gianfranco Martini torna alla mente ciò che aveva affermato, ormai venti anni fa, Danilo Dolci in un dialogo con Aldo Bonomi, ospitato dalla rivista Communitas e pubblicato a dieci anni dalla sua scomparsa: “per esistere, nell’iper modernità che avanza, nel dislivello temporale che incombe, l’essere con ha bisogno di testimonianza”.

 Di durata nelle persone che la animano.

Di tempo sedimentato e di vite investite responsabilmente.

Ci dice Dolci, ormai arrivato alla fine della sua lunga, incredibile, bellissima vita, che, in questa scomposizione, dobbiamo diffidare “degli uomini in fuga, delle presenze effimere”.

Allora la dimensione comunitaria, oggi più di ieri, ha bisogno dell’incontro reale, dell’ascolto del “tu”, della rinuncia all’autoaffermazione unidirezionale dell’Io.

“Fare comunità” vuol dire “fare relazione”.

“Il migliore produttore di comunità – conclude Danilo Dolci coerente con la sua pedagogia rivoluzionante e realmente socratica – è chi domanda, non chi insegna, o dirige”.

Occorre quindi riguadagnare nella terra del presente, tempo, spazio e futuro.

Ricostruire comunità, nel villaggio globale, l’Europa che viene.

Prima dell’Apocalisse.

Francesco Lauria

mercoledì 6 settembre 2017

MARCO BIAGI E LA FORZA OSTINATA DELLE FORMICHE.

Guardando il docufilm su Marco Biagi, sono tantissime le emozioni che si affollano. Appaiono nell'opera diverse assenze (si pensi alla Cisl, ma non solo), ma ci sono anche molti passaggi significativi, importanti per aprire un dibattito. Potrei parlare degli anni passati alla Fondazione Biagi e Adapt durante il mio percorso di dottorato, o del confronto ineludibile con questa figura, nei tanti anni successivi, vissuti a fianco d...i Giorgio Santini nel Dipartimento Mercato del Lavoro della Cisl.
Non ne ho la forza.
Sono i passaggi privati delle immagini, quel triciclo dell'86 che mi fa pensare a Biagi padre, ai figli, agli occhi della moglie Marina, incontrati alcune volte di persona a colpirmi dentro. Colpisce l'odio cieco negli occhi dei brigatisti, mentre rivendicano, con la loro terribile follia, l'omicidio nelle aule dei tribunali, nei giorni successivi. Colpisce anche uno Stato disattento, incapace di proteggere.
Una cosa ho imparato: in questo nostro dannato paese è, ancora oggi, più facile sparare, prevaricare, offendere, annientare, distruggere che discutere, studiare, approfondire, cercare un fine.
Dobbiamo cambiarlo questo paese dallo suo sguardo disattento, pedalando, con la forza ostinata delle formiche.

martedì 5 settembre 2017

IL SORRISO DI MINO E LA FORZA MITE DI UN RICORDO


Mentre viaggio verso Roma e cerco i giorni di settembre sul calendario, mi accorgo che ieri era il 4, settimo anniversario della scomparsa di Mino Martinazzoli. Un anniversario, quest'anno, passato quasi sotto silenzio, a differenza dell'anno scorso in cui ci fu, a Brescia, la presenza del presidente Mattarella.
Come tutti gli atipici e nonostante la grande differenza generazionale Martinazzoli esercitò su di me un grande fa
...scino, fascino che ricordo era condiviso con la bella "scuola" di giovani cattolici democratici e sociali bresciani cresciuti prima nel Ppi e poi nella Margherita, passando, non senza qualche distinzione, per l'Ulivo.
Martinazzoli è una di quelle figure che hanno fatto e vissuto la storia del nostro paese declinando, non senza ruvidezze e inquietudini, la lezione montininiana della politica come "forma più alta di carità".
Consiglio la lettura del suo ultimo libro, uscito postumo, sul rapporto dialettico tra legge coscienza, una bellissima testimonianza narrativa.
A parte una vecchia foto giovanile, io non ho trovato su internet una foto in cui sorridesse. Ma io ne ho una nel cuore, mi sorprese così tanto che, dopo vent'anni, non l'ho mai dimenticata. Eravamo seduti a fianco presso la sede della Regione Lombardia, dopo la siderale scoppola che prese da Roberto Formigoni alle elezioni regionali. Davvero mi sfugge a che titolo (non ne avevo) io partecipassi a quella riunione con una ventina di amici, per capire insieme come ripartire. Ricordo il suo sorriso quando smise di funzionargli il microfono e, scherzando, facendo ridere tutti disse: "è Formigoniano pure lui". Risi anche io e, tra me e me, pensai a quanto ero fortunato in quel momento a sorridere di una disfatta da cui, comunque, si voleva ricominciare a camminare.

Francesco Lauria

domenica 3 settembre 2017

IL SENTIERO E' LA META. Da Vicofaro a Orsigna


Chiesa di Vicofaro, una settimana esatta dopo l’esplosione delle polemiche e degli scontri.
La celebrazione è partecipata, non stracolma come la settimana precedente, non ci sono i provocatori fascisti con i guanti neri, né i cori di Bella Ciao fuori dalla chiesa, non ci sono le innumerevoli telecamere e chi conta in maniera risibile chi c’è e chi non c’è.
Provo a concentrarmi sul Vangelo della domenica.
“Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno (…).
Ascolto il parroco Don Biancalani parlare di “Vangelo della Giustizia”, del fatto che: “i nemici esistono” e della “necessità di un cristianesimo a tinte forti e non all’acqua di rose”.
Il testo del Vangelo oltrepassa i nemici, senza negarli, e vira sulla coscienza di ogni persona.
Il testo di Matteo prosegue infatti così: “Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. Qual vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria vita? O che cosa l'uomo potrà dare in cambio della propria vita?”
Chiudo gli occhi e penso a Don Umberto Cocconi a Parma, al suo commento che parte non dai “nemici”, ma dall’insufficienza di se stessi.
Scrive Don Umberto, citando Alberto Meschiari: “al Vangelo chiedo insomma di sciogliermi almeno un po’ dalle determinazioni in cui, come tutti, mi trovo anch’io inevitabilmente invischiato». Continua Don Umberto: “spesso ci lasciamo intimidire dalle incertezze e dalla paura di non afferrare quel fremito di libertà da cui siamo attraversati”.
Riscopre una frase di Henry David Thoreau: «Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto».
Nel pomeriggio, percorro il bosco, sopra Orsigna, raggiungo il “Cammino di Tiziano Terzani” verso l’”albero con gli occhi”...



La luce si nasconde dietro la montagna, rivivo, traslata negli Appennini, la bella immagine ladina dell’“enrosadira”: l’arrosarsi delle Dolomiti al tramonto, “come se tornassero ad essere quel che furono alle origini del mondo, montagne sottomarine rosso corallo”.
L’albero con gli occhi, la terra e il cielo, i sassi aiutano a guardarti nell’orizzonte, nel cammino e nel risveglio necessario.
Un messaggio è scritto sull’albero: “Il sentiero è la meta, il sentiero è la vita”.
Cioè proprio ciò che siamo impegnati a: “perdere”
Riascolto le parole di Giovanni Bianchi, testimone e maestro:
"Quanto alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. 
Dobbiamo provare a fare esperienze, sapendo che non tutte andranno a buon fine, ma senza il coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del cristiano chiamato a perdere la propria vita".
E' proprio’ questo il senso compiuto del Vangelo di oggi.
Mentre il tramonto si affaccia su Orsigna e l’albero di Tiziano è ormai alle spalle. Lo sguardo infinito del giorno muore per risorgere.
Il sentiero è la meta.

Francesco Lauria