Il tempo che resta.
Riflessione in un sabato Santo
sospeso tra morte e Resurrezione
Oracolo
del silenzio
Mi
gridano da Seir:
Sentinella,
quanto resta della notte?
Sentinella,
quanto resta della notte?
ISAIA, 21, 11
Non è un
sabato santo qualsiasi, quello che stiamo vivendo..
Un kronos
terribile e contraddittorio ha fatto irruzione, con le sue bombe, i suoi muri e
la sua pervadente paura, nel cammino e nello spazio del kairos che,
periodicamente, ci avvicina alla Pasqua.
E tutto
ciò avviene mentre abbiamo ancora negli occhi la “via crucis” di un popolo
inerme come quello in fuga dal Medio Oriente che si infrange di fronte ai muri
di un’Europa fortezza che si scopre, invece, tragicamente vulnerabile al proprio
interno, nel proprio cuore.
Come
scrivevo alcuni anni fa, commentando un famoso testo di Giorgio Agamben, il
sabato santo è, in ogni caso, un tempo potenzialmente sempre più difficile da
vivere pienamente, spiazzante nella nostra frenetica e, ormai, iperconnessa
vita.
Sembrerebbe
naturale, anche quest’anno viverlo e interpretarlo attraverso i canoni
abbastanza consueti dell’angoscia e di una solitudine quasi “kirkegardiana”: un
tempo di attesa, sofferenza e silenzio, in cui sembra forse più difficile la preparazione
della visione e del compimento della Resurrezione.
Un tempo
definito, in questo caso ancor più tragico, e proteso verso un altrove.
Se ci cimentiamo nella lettura del bello e intricato saggio di Giorgio
Agamben che si
intitola proprio:
"Il tempo
che resta. Un commento alla Lettera ai Romani" possiamo fermarci e riflettere sul fatto che, oggi, ci
troviamo allo stesso tempo di fronte e alle spalle la Resurrezione.
Siamo in
un tempo fortemente messianico in cui il rapporto dialettico tra memoria e
speranza, passato e presente, pienezza e mancanza, origine e fine, necessita
di un senso e di una forma.
La
risposta ce la fornisce lo stesso Paolo: egli definisce
l'essenza/esistenza interna del tempo come ho
nyn Kairos:
il "tempo di ora".
Come oggi,
sabato santo, ci troviamo nell'incertezza fiduciosa e sofferente che
ci pone tra la morte e la Resurrezione di Gesù, così il tempo di ora si
pone tra la Resurrezione e l'Apocalissi attraverso una circolarità che
inverte il rapporto tra passato e futuro, tra memoria e speranza.
Un anno
fa, all’indomani dell’attentato a Bruxelles, mi colpì molto un articolo dello
stesso Agamben su “Il sole 24 ore”, in
realtà scritto poche ore prima dell’irrompere del terrore nella capitale ferita
di un’Europa svanente.
In quel
caso Agamben, commentando la proroga di tre mesi dello stato d’emergenza in
Francia, rifletteva su un altro dei suoi temi più congeniali: lo stato d’eccezione permanente e la crisi
della democrazia.
Anche in
questo caso siamo in uno stato di “sospensione”. Non del tempo tra morte e
Resurrezione, ma del diritto e dei diritti. Una sospensione che rischia però di
farsi permanente e radicarsi ancor di più di fronte ai fatti di questi giorni.
Con grande
lucidità Agamben parla della sostituzione del tempo dello Stato di diritto con
quello di “Stato di sicurezza” ove
lo Stato si fonda stabilmente sulla paura e deve ad ogni costo mantenerla,
perché trae da essa la propria funzione essenziale e la propria legittimità.
Agamben ci
ricorda come Focault già avesse dimostrato che, quando il termine sicurezza
appare per la prima volta nel discorso politico francese, con i governi
fisiocratici prima della Rivoluzione, non si trattasse di prevenire le catastrofi
e le carestie, ma di lasciarle accadere per poterle poi guidare e orientare
verso la direzione ritenuta più conveniente.
Allo
stesso modo, continua Agamben, la sicurezza di cui si parla oggi non mira a
prevenire gli atti terroristici (cosa del resto assai difficile, se non
impossibile, poiché le misure di sicurezza sono efficaci solo ad attacco
avvenuto e il terrorismo è per definizione una serie di attacchi improvvisi),
ma a stabilire un controllo generalizzato e senza alcun limite sulla
popolazione (di qui, la concentrazione sui dispositivi che permettono il
controllo totale dei dati informatici dei cittadini, compreso l’accesso
integrale al contenuto dei computer).
Il rischio
è qui la deriva verso la creazione d’una relazione sistemica tra terrorismo e
Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per potersi legittimare,
si deve allora produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che si produca.
Vediamo
così degli Stati perseguire una politica estera che alimenta quello stesso
terrorismo che devono poi combattere all’interno e intrattenere relazioni cordiali,
se non addirittura vendere armi a Paesi che risultano finanziare le
organizzazioni terroristiche.
A tutto ciò si aggiungono le gravissime incognite dell'inizio dell'era Trump e le minacce nucleari che sono terribilmente tornate d'attualità.
Un secondo
punto che è importante definire è il cambiamento nello statuto politico dei
cittadini e del popolo, che era un tempo il depositario della sovranità.
Nello
Stato di sicurezza . sottolinea Agamben - si assiste a una tendenza
inarrestabile verso una depoliticizzazione
progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si
riduce ai sondaggi elettorali. Questa tendenza è tanto più inquietante, in
quanto era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come
un elemento essenzialmente impolitico cui lo Stato doveva garantire protezione
e crescita. Secondo questi giuristi, c’è solo un modo per politicizzare questo
elemento impolitico: attraverso l’uguaglianza di stirpe e di razza, che deve
distinguerlo dallo straniero e dal nemico.
Straniero
e nemico. Termini che risuonano continuamente in questi giorni, alimentando una
spirale pericolosa e sterile.
Di fronte
al tempo di oggi troviamo soprattutto smarrimento e l’apparente mancanza di una
strategia di resistenza, di un’alternativa nonviolenta.
Questo
sabato santo 2017 ci dà invece l’opportunità di rendere generativo lo spazio/tempo
che stiamo vivendo.
Un sabato
santo di preghiera e timore di angoscia che solo se guidata dalla sete di vita
e di condivisone, può portare alla piena Resurrezione.
Passando
dal testo biblico alla vita di ogni giorno è l'oggi, il tempo che ci resta,
quello che è individualmente e umanamente possibile, all'interno della vita di
ogni singolo essere umano: ad essere centro mobile, non destino, ma
costruzione.
E' il
continuo kairos che ci obbliga ad una costante
critica e rimessa in discussione e che si pone di fronte al continuo
mutare del presente.
Un
presente sospeso, "in continua rivolta".
La
rivolta, come scrive Simona Urso si distingue dalla rivoluzione
proprio attraverso la diversa esperienza del tempo.
"Essere quindi dentro il tempo (la rivolta di Spartaco), e non auspicarsi
in un tempo futuro (la prospettiva rivoluzionaria), è il tempo che resta."
Essere
dentro il tempo, in questo sabato Santo 2017, non ci deve far permettere alla
paura di divorare il nostro spirito critico, di impedirci di decodificare i
segni difficili del nostro tempo.
In questo possiamo accarezzare quello che Walter
Benjamin definirebbe
"messianismo debole".
La
nostra continua rivolta si pone come argine all'assolutizzazione
della violenza e del tempo, anche nel suo scontato destino, divenire del
singolo e della comunità.
La Pasqua,
che oggi, solo intravediamo è Vita che dà vita.
Come mi
scriveva anni fa Enrico Peyretti, in replica alle considerazioni sulla Lettera
ai Romani, “Gesù di Nazareth, affrontando il rifiuto e la violenza con la
forza della fedeltà alla verità che aveva da vivere, accettando di essere fatto
vittima innocente, insieme a banditi, perché non ci fossero più vittime,
neppure colpevoli, è diventato, anche fuori dalla religione che a lui si
ispira, un esempio massimo di vita che dà vita, uno spirito maternamente
fecondo per l'umanità che cerca di vivere”.
Ma
dobbiamo partire da noi.
Un collega
mi ha riportato alla mente uno scritto di Roberto Mancini che, in sostanza,
afferma che "solo la resurrezione, in quanto avvento di una vita vera, può
restituirci a noi stessi, e siamo davvero noi stessi lì dove il male non ha più
il potere di conquistarci a sè".
Ma qui è
il punto: l'avvento di una vita vera passa attraverso la fatica della libertà e
il rischio del pellegrinaggio alla ricerca di una verità nomade che ci rende
nomadi (direbbe Levinas).
Anche
questo è il senso del sabato santo.
Il tempo
che resta, se davvero vogliamo far vivere la Fede è proprio il contrario
di quello che una teologia politica della violenza e dell'identità attualmente
in voga vorrebbe farci credere, assolutizzando, insieme all'identità, un kronos
immobile nel suo scontato divenire finale.
E’ il
grande messaggio, difficile e non banale del Giubileo della Misericordia, solo
formalmente concluso, che ci ha donato Papa Francesco che non a caso, anche
ieri, nella Via Crucis del 2017, così come in quella precedente, di fronte alle
bombe in Siria , in Afganistan e in Egitto, ha parlato dei mercanti di armi,
dei mercanti di morte.
E' la libertà della nostra rivolta, del nostro tempo, a
farci navigare in e verso una resurrezione pervadente che sta
alle nostre spalle e insieme di fronte a noi.
Nella nostra
memoria, nella nostra storia, ma anche nella nostra speranza, nel nostro
divenire.
Un Resurrezione che non possiamo toccare, ma di cui dobbiamo imparare a
riconoscere i segni.
Affinché
il male non si assolutizzi e renda permanente non l’avvento della Resurrezione,
ma i chiodi delle bombe e di una croce che non ci libera, ma ci tiene affogati
nel sangue di una storia apparentemente finita.
Proprio oggi, dobbiamo, invece, avere il coraggio di guardare alla Vita che
dona Vita, nel tempo che ci resta, il tempo di un'incertezza feconda declinata
attraverso la memoria e la fede.
In un
sabato santo in cui il silenzio è il nostro tempo, necessario.
Non è un
altrove.
Qui e ora.
Il tempo
che resta.
Buona
Pasqua.
Francesco Lauria