7.45 del mattino.
Pistoia, quarant’anni dopo: terrorismo,
memoria, speranza.
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Le 7.45.
Per molti è l’ora in cui, dopo un
caffè di fretta, si esce di casa, si portano i bambini all’asilo o a scuola, ci
si incammina, a piedi, in bicicletta, in macchina, verso gli uffici, i luoghi
di lavoro.
Per tre anni, proprio
accompagnando mio figlio all’asilo, in via Cavallerizza, sono passato decine di
volta a fianco di Via Borgo Viterbo, a Pistoia, senza mai notare questa strada
che si incunea stretta, tra le case.
22 giugno 1977.
7.45 appunto.
Giancarlo Niccolai, consigliere
comunale democristiano, impegnato a livello nazionale nei gruppi di impegno
politico Dc sui luoghi di lavoro, esce di casa, saluta la moglie e il figlio
dodicenne, fa pochi passi. Si appresta a salire sulla bicicletta.
Deve recarsi alla Breda, dove
lavora nell’ufficio del personale e in cui, in quota Fim Cisl, è anche
componente del Consiglio di Fabbrica.
Vicino a casa sua, oggi, c’è
ancora la siepe dietro la quale si nascosero i terroristi di Prima Linea,
componenti del gruppo guidato da Marco Donat-Cattin, figlio del leader
democristiano Carlo, che aprirono il fuoco su di lui.
“L’intento - ricorda Niccolai -
non era solo quello di gambizzarmi, ma di uccidermi. Fu uno dei primi attentati
di questo livello in Toscana – continua
Niccolai - i terroristi erano arrivati a bordo di una Mini, che fu poi
ritrovata a Firenze, insieme al volantino di rivendicazione”.
In quella mattinata calda, con le
finestre aperte, sembra di ascoltare il grido disperato della moglie di
Niccolai, subito accorsa: “Oggi è toccato a noi, è toccato a noi!”.
Dove quel noi, certamente,
rappresenta il grido intimo e familiare di una coppia di genitori, ma che,
metaforicamente, può significare anche Pistoia, una città che viveva di riflesso
le grandi manifestazioni e agitazioni di piazza del ’77 che coinvolgevano, in
particolare, Bologna e Firenze.
In quel momento siamo davvero quasi
all’apice degli attentati terroristici, sia di matrice rossa che di matrice
nera, manca meno di un anno al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro.
Pistoia aveva subito solo un
altro attentato dalle dinamiche poco chiare: il 6 gennaio 1976 era saltata in
aria l’auto del direttore di uno stabilimento tessile, in un’azione rivendicata
dal: “Nucleo operai comunisti”.
“Fu una stagione politica e
sociale molto complessa – confida Niccolai – si avvertiva già il processo che
avrebbe portato alla crisi dell’unità sindacale, lo scontro in fabbrica, anche
alla Breda era molto forte, anche se mai degenerò, in alcuno, in
fiancheggiamento al terrorismo”.
A livello politico nazionale,
molto delicato era l’equilibrio del percorso di convergenze (“parallele”) tra
Democrazia Cristiana e Partito Comunista, guidati da due grandissime figure
come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Un percorso che, inevitabilmente, lasciava
spazio alla sinistra più estrema.
Si avverte l’eco di questo
contesto nelle parole livorose del comunicato di Prima Linea, successivo
all’attentato a Niccolai, che denunciava l’accordo di Dc e Pci nell’imporre la “pace
sociale agli operai”.
I “riformisti” secondo Prima
Linea erano: “colpevoli di complicità negli strumenti di controllo e di dominio
sulla classe proletaria”. Per l’organizzazione terroristica si passava, con
l’attentato a Niccolai, dalla lotta armata alla prospettiva della “guerra di
classe di lunga durata”.
Una folle illusione: la parabola
terrorista in Italia, purtroppo non nella ferocia, ma nella sua capacità di
permeare pezzi di società, era già in una fase discendente. Un declino rafforzato
dalla reazione generale all’assassinio di Aldo Moro e a quello, avvenuto nel
gennaio del 1979, dell’operaio comunista Guido Rossa.
Niccolai fu ferito gravemente,
rimase ricoverato in ospedale per tre mesi.
“Pur con poche forze, ricorda,
chiesi di non essere trasferito a Firenze, ma curato presso l’Ospedale del
Ceppo”.
“Era in corso, a Pistoia - mi
dice con voce insolitamente pacata - la festa dell’Unità, con ospite il
dirigente nazionale Aldo Tortorella. La festa fu subito sospesa, Tortorella e
Vannino Chiti vennero subito a trovarmi in ospedale.”
Immediatamente, anche alla Breda,
fu proclamato lo sciopero unitario dei lavoratori, la società pistoiese tutta
si recò di fronte al Ceppo, dove era curato il dirigente democristiano seriamente
ferito.
Pochi mesi dopo ci fu una soffiata,
i componenti del commando furono arrestati e processati.
“Non ho voluto eccedere nel dare
un significato “politico” al perdono che ho maturato nei confronti dei
terroristi e che esplicitai anche nel mio rifiuto di costituirmi parte civile
nel processo.
Il perdono è un’arma di pace, ma
è anche un gesto individuale e familiare, non può non essere accompagnato dalla
giustizia e dalla memoria.”
La memoria, quasi un’ossessione
per Niccolai.
La sala del Centro Donati, in
piazza San Francesco a Pistoia in cui ci incontriamo, ne è permeata, tra
manifesti, immagini, fogli dattiloscritti, vecchi computer ormai in disuso.
“E’ importante, fondamentale, proprio
oggi che un terrorismo del tutto diverso, è tornato a permeare le nostre vite,
che i nostri ragazzi e ragazze conoscano ciò che è accaduto, cosa successe alla
società italiana durante il terrorismo politico, quale fu la risposta della
società e delle istituzioni.
E’ un tempo chiuso, che non ha
legami diretti con l’oggi – continua Niccolai. Pur con mille limiti la classe
politica e parlamentare dell’epoca, maggioranza e opposizione, aveva un legame
con la cittadinanza, con il “popolo”, che ora è indubbiamente, desolantemente
perduto.”
L’arco costituzionale seppe resistere
alla tentazione di un’eccessiva e probabilmente illusoria compressione dei
diritti e il terrorismo fu sconfitto, soprattutto, dalla risposta della
nazione, non dalle leggi speciali.
Quarant’anni dopo l’anniversario
dell’attentato a Niccolai, ricorre, curiosamente, quasi nel giorno della
sentenza definitiva per la strage di Piazza della Loggia.
Ricostruire una memoria civile e
diffusa di quegli anni, è operazione non banale, ma non appare più rinviabile.
Se il terrorismo degli anni
settanta è, per fortuna, una pagina chiusa dalla storia, il germe sciagurato
dell’odio politico e della violenza è, purtroppo, sempre pronto a germogliare.
Rischiamo, un po’ come con Borgo Viterbo, a Pistoia, di non vederlo, o di
attraversarlo di fretta, presi dai nostri problemi quotidiani.
E invece, non deve rimanere
invisibile il ricordo di quello che è stato, perché c’è molto di quello che
oggi noi siamo.
Proprio per questo l’ostinata
testimonianza del “fastidioso” Niccolai, come bonariamente lo apostrofò Florio
Colomeiciuc: “è un segno di salvezza,” per una città che vuole continuare a
credere nella speranza del futuro oltre che rinsaldare e rinnovare le proprie
radici antifasciste e democratiche.
Francesco Lauria
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