Autonomie cooperanti o in frantumi?
Riflessioni a margine di due viaggi, tra solitudine,
memoria e cooperazione.
di Francesco Lauria
Quando il mio amico Michele
Nardelli ha intrapreso, mesi fa, il suo “viaggio nella solitudine della
politica” (Sifr: lo scarto di pensiero fra curiosità e meraviglia: http://www.zerosifr.eu/
) ne sono subito rimasto coinvolto e affascinato.
Nel suo percorso che, come
sempre, è partito dalle valli trentine, Nardelli ha incontrato numerosi
compagni di strada e di viaggio.
Nei miei occhi e nel mio
cuore sono indelebili le esperienze condivise nella “comunità maledetta” di
Priejdor, e i cuniculi delle miniere di ferro che furono usati per essere
colmati di cadaveri durante la guerra civile bosniaca, ma anche le tante
esperienze significative di rinascita di comunità, portate avanti in un’ottica
di cooperazione decentrata dal basso fondata sulla ricerca della reciprocità.
Mentre osservo il viaggio di
Michele, assisto, grazie al sindacato, alla partenza di un altro viaggio, che
parte proprio fra poche ore.
Lo vivo grazie alle parole
di Elisa Fiorani, amica e collega, della Cisl Emilia Romagna e dell'Iscos:
“Così si parte per un viaggio
contro l'odio e l'oblio. 'Accompagnati da Luca Leone, lunedì partiremo per il Viaggio
della Memoria, organizzato da Cisl Emilia Romagna e Iscos Emilia-Romagna, con
un gruppo di 80 persone per ricostruire alcune delle principali tappe del
conflitto di Bosnia e per ascoltare e confrontarsi con alcune delle vittime,
dei sopravvissuti all’ultima guerra europea. Dal 2 al 7 ottobre visiteremo il
campo di concentramento della II guerra mondiale di Jasenovac, la città di
Sarajevo e le sue vene aperte, Višegrad divisa dagli orrori e unita dal suo
storico ponte, Srebrenica e Tuzla, ma soprattutto avremo l’occasione di
incontrare testimoni straordinari di quel periodo e della Bosnia di oggi come
Jovan Divjak, Amor Masovič, Bakira Hasečić, Pero Sudar, le donne di Srebrenica
e, insieme a Selma Hadzihalilovic, alcune organizzazioni della società civile
che lottano per i diritti umani in Bosnia Herzegovina come l’Associazione
Jadar, Fondacija Cure/CURE Foundation, Lotos -Zaštita mentalnog zdravlja,Spid
Club Amel Kapo, l’Associazione delle donne vittime di guerra, Centar za ženska
prava / Women's Rights Center anche grazie al sostegno di Iscos Emilia-Romagna.'
Il video preparatorio del viaggio è raggiungibile a questo
link:
In queste contraddizioni di ferite e rinascita entrambi
questi percorsi non possono ignorare l’ incontro con la dimensione smarrita
dell’Europa: e i fatti, quasi incredibili, pur se lungamente attesi, di
Barcellona e della Catalogna.
Alcuni giorni fa il blog di Michele Nardelli si è arricchito
di un intervento di Federico Zappini, che riflette anche sugli imminenti
referendum di due altre regioni “ricche”, come la Catalogna: Veneto e
Lombardia.
E’ un testo illuminante che si sofferma sulle diverse “solitudini”
delle autonomie territoriali, ma anche sulle prospettive di cooperazione in un’ottica
europea e, in generale, sovrannazionale.
Riporto qui le conclusioni, che condivido pienamente, allargando
la riflessione alla società civile e al sindacato, cioè alle diverse direzioni
della sussidiarietà., e rimandando chi è davvero interessato a una lettura
completa.
(…) Gli accadimenti di questi giorni – gli
arresti e la prova muscolare del governo spagnolo, l’indignazione delle
autorità e dei cittadini catalani, la scadenza del prossimo primo ottobre – non
hanno a che fare (solo) con il referendum che divide Barcellona e Madrid.
Parlano ai territori che già sono autonomi e che, come nel caso trentino,
vivono una crisi di crescita delle condizioni sociali, culturali e
partecipative che sono alla base, molto più dei documenti formali, della
specialità autonomistica. Parlano alle città – tra queste anche la Barcellona
della sindaca Ada Colau – che negli ultimi anni sono state laboratorio per una
nuova stagione municipalista, innovativa e sostenibile, solidale e inclusiva.
Parlano alle aree interne, alle terre alte, alle zone (diventate) marginali che
hanno subito processi di impoverimento, spopolamento e omologazione e che
vedono nell’autogoverno una possibile via per riaffermare la propria
particolarità e il proprio bisogno di attenzione e cura. Parlano a tutti quelli
che credono ci sia bisogno di una stagione politica contemporaneamente
territoriale ed europea, che respinga il riemergere dei sovranismi in nome di
un nuovo modello democratico, aperto e orizzontale, caratterizzato da pratiche
di responsabilità, di mutualismo, di reciprocità.
Ciò che sta succedendo – anche rispetto al
prossimo referendum veneto/lombardo, che in molti osteggiano, sottovalutano o
addirittura deridono – non va interpretato come un rischio per la tenuta delle
entità statuali di tradizione novecentesca e, di conseguenza, dell’architettura
europea, ma come uno stimolo per mettere entrambi positivamente sotto
pressione. Per immaginare – in opposizione alla strenue difesa delle
Costituzioni vigenti e dei confini nazionali, dell’integrità culturale e
dell’omogeneità etnica – l’inizio di un percorso costituente che sappia
coniugare autogoverno dei territori e sovranazionalità, cura per il Bene Comune
che si riconosce all’interno di una propria comunità di destino e nuovo
approccio cosmopolitico che ci vede tutti parte di una comunità sola che
abbraccia il mondo intero.
Autonomie cooperanti. L’utopia di un’Europa che si
fonda sull’autogoverno territoriale.
di Federico Zappini
C’è vita oltre i referendum convocati da
Zaia e Maroni. E’ c’è spazio per discutere di autonomia e autogoverno senza
dover necessariamente andare a ruota della propaganda – tutta economica e
opportunistica – leghista. Dentro “Il viaggio nella solitudine della politica”
abbiamo già avuto modo di incrociare la questione in diverse occasioni.
Attraversando il Trentino, e le sue difficoltà nell’affrontare il percorso di
scrittura del Terzo Statuto. Incontrando cittadini e cittadine che nell’area
dolomitica e alpina da anni – in Veneto come in Friuli, o nelle valli Lombarde
– si interrogano e praticano sul fenomeno delle proprietà collettive e la
gestione dei beni comuni. Ne emerge un interessante – e non privo di
contraddizioni – movimento di persone, tra loro anche molto diverse, che
guardano con curiosità e attenzione alle prospettive federaliste. Sarebbe
sbagliato non tenere in considerazione questa ricchezza di punti di vista,
lasciando che ognuno approcci i prossimi referendum senza una minima
riflessione collettiva.
Nel corso del fine settimana che condurrà
alla scadenza referendaria il viaggio ci porterà sulle strade della Padania
(concetto politico dal dubbio significato, ma utile per inquadrare lo spazio
geografico che visiteremo) parlando di immigrazione e cooperazione
internazionale, di petrolio e nucleare, del mito della velocità, della politica
civica e delle sue possibili declinazioni. Per la data del 22 ottobre abbiamo
immaginato una tappa nel paese di Pieve di Soligo, luogo di nascita e di vita
di Andrea Zanzotto, cantore del territorio e del limite. Concetti che devono
essere cari a chi oggi è interessato a mettere in campo seriamente un discorso
che faccia della responsabilità dell’autogoverno un tratto distintivo del
prossimo futuro a livello quantomeno europeo. Il testo che segue è un invito a
chi ne abbia voglia di partecipare ad una conversazione mattutina (dalle 10.00
alle 13.00, in un luogo che segnaleremo al più presto) che vuole sortire
l’effetto di spostare in avanti il dibattito, stabilendo relazioni
significative tra territori e comunità diverse.
§§§
Venti di indipendenza. Propositi di
autonomia. Provo almeno ad abbozzare, come contributo a un più ampio confronto
necessario e urgente, una riflessione su due temi – affini e pure distanti,
spesso confusi e mal interpretati – tornati alla ribalta dentro la fitta agenda
di consultazioni popolari che ci attende, la più riconoscibile e attesa delle
quali è quella prevista per il primo di ottobre in Catalogna.
Lo faccio cercando di orientarmi
all’interno di uno scenario che – in Catalogna come in Scozia, in Italia o nel
Kurdistan iracheno – sta alzando in maniera significativa i toni dello scontro
senza però garantire un impatto rilevante sul dibattito legato alle prospettive
dell’Europa da un lato e alle articolazioni – non da oggi in difficoltà – della
politica, rappresentativa e non, a livello locale come globale.
Vale quindi la pena di tenere
l’inquadratura larga, non lasciandoci sopraffare dal particolare che distoglie
l’attenzione dalla visione d’insieme, e procedere con la dovuta cautela lungo
un tratto di strada dal fondo dissestato. Coltivando l’ambizione di
evitare da un lato il politically correct – e le zone di confort che
normalmente abitiamo – dall’altro il riflesso condizionato che genera
l’automatico posizionamento su uno dei due fronti contrapposti, dando per
scontato che tale polarizzazione tra pro e contro l’attivazione – in termini
anche radicali e diffusi – di processi volti all’autogoverno territoriale
esaurisca tutte le possibili alternative in campo. Praticare la terza via, un
pensiero non allineato e (possibilmente) originale, è in queste condizioni
l’unica strada percorribile, benché metta nella posizione perfetta – sia che si
parli dell’autodeterminazione catalana che del referendum veneto e lombardo –
per finire schiacciati tra incudine e martello. In una posizione di disagio, ma
obbligata dal contesto di partenza. Né per l’unità indissolubile dello Stato.
Né per l’indipendentismo che tende a alimentare fratture e chiusure
identitarie.
Elefanti in una cristalleria, questo
siamo. Una cristalleria stracolma di storie e memorie (spesso conflittuali e
altrettanto spesso frutto di ricostruzioni parziali, fantasiose o addirittura
false), di fragili equilibri (politici, sociali ed economici), di tentazioni
plebiscitarie – ah, il popolo! – e uguali e contrarie tensioni conservatrici e
neo-nazionaliste. Affollata di retorica e altrettanto conformismo, a volte
ammantato di obbligato realismo, altre di presunta radicalità. Un bel
guazzabuglio, figlio anche dell’impatto avuto dalla globalizzazione sui
territori, trasformati – anche in questo caso estremizzando le opposte visioni
– in piccole patrie dai tratti romanticamente (iper)identitari, con l’ipotesi
autarchica sullo sfondo, o in rami d’azienda che possono essere gestiti secondo
le logiche delle economie di scala, dei costi standard, della riduzione, o
peggio cancellazione, di tutti i corpi intermedi. Il tutto attraverso processi
decisionali sempre più centralizzati e verticali.
Da dove partire quindi per sbrogliare
questa matassa? Forse dovremmo cercare le motivazioni dell’autonomia nel futuro
e non nel passato e rendere l’autogoverno un’utopia politica piuttosto che
la riproposizione di miti etnici fondativi. Solo così potremo riconoscere le
opportunità offerte da una futuribile gestione a più livelli della governance
europea (con rinnovato spirito federalista) tentando di intestarci il “ruolo
di sperimentatori curiosi di meccanismi democratici, partecipativi e inclusivi
di autogoverno, in nome di un territorialismo cosmopolita capace di muoversi
dentro le geografie variabili che il tempo che viviamo richiede.“ [1] Adriano Olivetti – nel suo “Ordine
politico delle Comunità”, anno di pubblicazione 1944 – si esprimeva così
a riguardo:
“Nè lo Stato né l’individuo possono da
soli realizzare il mondo che nasce. Sia accettato e spiritualmente inteso un
nuovo fondamento atto a ricomporre l’unità dell’uomo: la Comunità concreta.” [2].
Giuseppe De Rita [3], qualche anno dopo, ritornando sul tema
della prossimità come concetto non solo geografico, ma sociale e politico,
rilanciava la necessità di tornare al piccolo (ma non solo e isolato) come
cellula di partenza ideale di un modo altro di intendere il ruolo della
politica:
“E’ sul territorio che oggi si formano
interessi e identità collettivi; è sul territorio che si esplica la voglia di
viver bene su cui si radica oggi buona parte del consenso sociale; è sul
territorio che si può richiamare la responsabilità di tutti (imprese, enti
locali e singoli) a rilanciare lo sviluppo e a razionalizzare spese e
interventi […]”
Bisogna ripartire dalla prossimità perché
é lì che sta il valore. Serve ripartire dal vicino. Non perché vada riaffermata
una tendenza al localismo, ma perché sarà solo descrivendo percorsi comuni che
ricompongano comunità (ibride per composizione e destino, capaci di
contaminarsi in maniera virtuosa per attitudine) che sapremo articolare
riflessioni all’altezza delle sfide dell’interdipendenza globale e capaci di
sorpassare la dimensione – troppo piccola e troppo grande nello stesso tempo –
degli Stati nazionali, impegnati in questa fase storica a riaffermare la
propria (pericolosa) centralità. Non chiusura o esclusività, non privilegio ma
diffusa pratica dell’autogoverno e valorizzazione delle specificità di ogni
contesto, arricchite da continuo dialogo e confronto.
Dialogo e confronto intesi come strumenti
utili – ecco la seconda provocazione metodologica da cui muovere il “che fare”
– ad accompagnare il pensiero e l’azione di una futura Europa federale
ricompositiva di autonomie cooperanti per futuri scenari, valoriali e pratici,
dai tratti condivisi piuttosto che concorrenti nella rilettura rancorosa e
rivendicativa del proprio passato.
Questo modo di vedere le cose corrisponde
alla domanda “E
poi?” che pone
Michele Kettmajer e alla proposta che Davide
Buldrini, da Bruxelles,
avanza invitandoci a essere produttori di un cambio di paradigma
nell’avvicinarci ai concetti di Nazione e popolo:
“Cominciamo tutti quanti col non guardare
solo il cortile di casa, e non pensare che la nostra identità finisca dove
finisce il quartiere, il fiume o il confine della nostra nazione. Oltre i
confini le identità si rafforzano e si arricchiscono a vicenda. E’ la natura
umana. Perché nessun uomo è un isola. E non lo è nemmeno l’Europa.”
Gli accadimenti di questi giorni – gli
arresti e la prova muscolare del governo spagnolo, l’indignazione delle
autorità e dei cittadini catalani, la scadenza del prossimo primo ottobre – non
hanno a che fare (solo) con il referendum che divide Barcellona e Madrid.
Parlano ai territori che già sono autonomi e che, come nel caso trentino,
vivono una crisi di crescita delle condizioni sociali, culturali e
partecipative che sono alla base, molto più dei documenti formali, della
specialità autonomistica. Parlano alle città – tra queste anche la Barcellona
della sindaca Ada Colau – che negli ultimi anni sono state laboratorio per una
nuova stagione municipalista, innovativa e sostenibile, solidale e inclusiva.
Parlano alle aree interne, alle terre alte, alle zone (diventate) marginali che
hanno subito processi di impoverimento, spopolamento e omologazione e che
vedono nell’autogoverno una possibile via per riaffermare la propria
particolarità e il proprio bisogno di attenzione e cura. Parlano a tutti quelli
che credono ci sia bisogno di una stagione politica contemporaneamente
territoriale ed europea, che respinga il riemergere dei sovranismi in nome di
un nuovo modello democratico, aperto e orizzontale, caratterizzato da pratiche
di responsabilità, di mutualismo, di reciprocità.
Ciò che sta succedendo – anche rispetto al
prossimo referendum veneto/lombardo, che in molti osteggiano, sottovalutano o
addirittura deridono – non va interpretato come un rischio per la tenuta delle
entità statuali di tradizione novecentesca e, di conseguenza, dell’architettura
europea, ma come uno stimolo per mettere entrambi positivamente sotto
pressione. Per immaginare – in opposizione alla strenue difesa delle
Costituzioni vigenti e dei confini nazionali, dell’integrità culturale e
dell’omogeneità etnica – l’inizio di un percorso costituente che sappia
coniugare autogoverno dei territori e sovranazionalità, cura per il Bene Comune
che si riconosce all’interno di una propria comunità di destino e nuovo
approccio cosmopolitico che ci vede tutti parte di una comunità sola che
abbraccia il mondo intero.