sabato 15 aprile 2017

Il tempo che resta.
Riflessione in un sabato Santo
sospeso tra morte e Resurrezione




Oracolo del silenzio
Mi gridano da Seir:
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?

                               ISAIA, 21, 11

Non è un sabato santo qualsiasi, quello che stiamo vivendo..
Un kronos terribile e contraddittorio ha fatto irruzione, con le sue bombe, i suoi muri e la sua pervadente paura, nel cammino e nello spazio del kairos che, periodicamente, ci avvicina alla Pasqua.
E tutto ciò avviene mentre abbiamo ancora negli occhi la “via crucis” di un popolo inerme come quello in fuga dal Medio Oriente che si infrange di fronte ai muri di un’Europa fortezza che si scopre, invece, tragicamente vulnerabile al proprio interno, nel proprio cuore.
Come scrivevo alcuni anni fa, commentando un famoso testo di Giorgio Agamben, il sabato santo è, in ogni caso, un tempo potenzialmente sempre più difficile da vivere pienamente, spiazzante nella nostra frenetica e, ormai, iperconnessa vita.
Sembrerebbe naturale, anche quest’anno viverlo e interpretarlo attraverso i canoni abbastanza consueti dell’angoscia e di una solitudine quasi “kirkegardiana”: un tempo di attesa, sofferenza e silenzio, in cui sembra forse più difficile la preparazione della visione e del compimento della Resurrezione.
Un tempo definito, in questo caso ancor più tragico, e proteso verso un altrove.
Se ci cimentiamo nella lettura del bello e intricato saggio di Giorgio Agamben che si intitola proprio: 
"Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani" possiamo fermarci e riflettere sul fatto che, oggi, ci troviamo allo stesso tempo di fronte e alle spalle la Resurrezione.
Siamo in un tempo fortemente messianico in cui il rapporto dialettico tra memoria e speranza, passato e presente, pienezza e mancanza, origine e fine, necessita di un senso e di una forma.
La risposta ce la fornisce lo stesso Paolo: egli definisce l'essenza/esistenza interna del tempo come ho nyn Kairos: il "tempo di ora".
Come oggi, sabato santo, ci troviamo nell'incertezza fiduciosa e sofferente che ci pone tra la morte e la Resurrezione di Gesù, così il tempo di ora si pone tra la Resurrezione e l'Apocalissi attraverso una circolarità che inverte il rapporto tra passato e futuro, tra memoria e speranza.
Un anno fa, all’indomani dell’attentato a Bruxelles, mi colpì molto un articolo dello stesso Agamben su “Il sole 24 ore”,  in realtà scritto poche ore prima dell’irrompere del terrore nella capitale ferita di un’Europa svanente.
In quel caso Agamben, commentando la proroga di tre mesi dello stato d’emergenza in Francia, rifletteva su un altro dei suoi temi più congeniali: lo stato d’eccezione permanente e la crisi della democrazia.
Anche in questo caso siamo in uno stato di “sospensione”. Non del tempo tra morte e Resurrezione, ma del diritto e dei diritti. Una sospensione che rischia però di farsi permanente e radicarsi ancor di più di fronte ai fatti di questi giorni.
Con grande lucidità Agamben parla della sostituzione del tempo dello Stato di diritto con quello di “Stato di sicurezza” ove lo Stato si fonda stabilmente sulla paura e deve ad ogni costo mantenerla, perché trae da essa la propria funzione essenziale e la propria legittimità.
Agamben ci ricorda come Focault già avesse dimostrato che, quando il termine sicurezza appare per la prima volta nel discorso politico francese, con i governi fisiocratici prima della Rivoluzione, non si trattasse di prevenire le catastrofi e le carestie, ma di lasciarle accadere per poterle poi guidare e orientare verso la direzione ritenuta più conveniente.
Allo stesso modo, continua Agamben, la sicurezza di cui si parla oggi non mira a prevenire gli atti terroristici (cosa del resto assai difficile, se non impossibile, poiché le misure di sicurezza sono efficaci solo ad attacco avvenuto e il terrorismo è per definizione una serie di attacchi improvvisi), ma a stabilire un controllo generalizzato e senza alcun limite sulla popolazione (di qui, la concentrazione sui dispositivi che permettono il controllo totale dei dati informatici dei cittadini, compreso l’accesso integrale al contenuto dei computer).
Il rischio è qui la deriva verso la creazione d’una relazione sistemica tra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per potersi legittimare, si deve allora produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che si produca.
Vediamo così degli Stati perseguire una politica estera che alimenta quello stesso terrorismo che devono poi combattere all’interno e intrattenere relazioni cordiali, se non addirittura vendere armi a Paesi che risultano finanziare le organizzazioni terroristiche.
A tutto ciò si aggiungono le gravissime incognite dell'inizio dell'era Trump e le minacce nucleari che sono terribilmente tornate d'attualità.
Un secondo punto che è importante definire è il cambiamento nello statuto politico dei cittadini e del popolo, che era un tempo il depositario della sovranità.



Nello Stato di sicurezza . sottolinea Agamben - si assiste a una tendenza inarrestabile verso una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali. Questa tendenza è tanto più inquietante, in quanto era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento essenzialmente impolitico cui lo Stato doveva garantire protezione e crescita. Secondo questi giuristi, c’è solo un modo per politicizzare questo elemento impolitico: attraverso l’uguaglianza di stirpe e di razza, che deve distinguerlo dallo straniero e dal nemico.
Straniero e nemico. Termini che risuonano continuamente in questi giorni, alimentando una spirale pericolosa e sterile.
Di fronte al tempo di oggi troviamo soprattutto smarrimento e l’apparente mancanza di una strategia di resistenza, di un’alternativa nonviolenta.
Questo sabato santo 2017 ci dà invece l’opportunità di rendere generativo lo spazio/tempo che stiamo vivendo.
Un sabato santo di preghiera e timore di angoscia che solo se guidata dalla sete di vita e di condivisone, può portare alla piena Resurrezione.
Passando dal testo biblico alla vita di ogni giorno è l'oggi, il tempo che ci resta, quello che è individualmente e umanamente possibile, all'interno della vita di ogni singolo essere umano: ad essere centro mobile, non destino, ma costruzione.
E' il continuo kairos che ci obbliga ad una costante critica e rimessa in discussione e che si pone di fronte al continuo mutare del presente.
Un presente sospeso, "in continua rivolta".
La rivolta, come scrive Simona Urso si distingue dalla rivoluzione proprio attraverso la diversa esperienza del tempo.
"Essere quindi dentro il tempo (la rivolta di Spartaco), e non auspicarsi in un tempo futuro (la prospettiva rivoluzionaria), è il tempo che resta."
Essere dentro il tempo, in questo sabato Santo 2017, non ci deve far permettere alla paura di divorare il nostro spirito critico, di impedirci di decodificare i segni difficili del nostro tempo.
In questo possiamo accarezzare quello che  Walter Benjamin definirebbe "messianismo debole".
La nostra continua rivolta si pone come argine all'assolutizzazione della violenza e del tempo, anche nel suo scontato destino, divenire del singolo e della comunità.
La Pasqua, che oggi, solo intravediamo è Vita che dà vita.
Come mi scriveva anni fa Enrico Peyretti, in replica alle considerazioni sulla Lettera ai Romani, “Gesù di Nazareth, affrontando il rifiuto e la violenza con la forza della fedeltà alla verità che aveva da vivere, accettando di essere fatto vittima innocente, insieme a banditi,  perché non ci fossero più vittime, neppure colpevoli, è diventato, anche fuori dalla religione che a lui si ispira, un esempio massimo di vita che dà vita, uno spirito maternamente fecondo per l'umanità che cerca di vivere”.
Ma dobbiamo partire da noi.
Un collega mi ha riportato alla mente uno scritto di Roberto Mancini che, in sostanza, afferma che "solo la resurrezione, in quanto avvento di una vita vera, può restituirci a noi stessi, e siamo davvero noi stessi lì dove il male non ha più il potere di conquistarci a sè".
Ma qui è il punto: l'avvento di una vita vera passa attraverso la fatica della libertà e il rischio del pellegrinaggio alla ricerca di una verità nomade che ci rende nomadi (direbbe Levinas).
Anche questo è il senso del sabato santo.
Il tempo che resta, se davvero vogliamo far vivere la Fede è proprio il contrario di quello che una teologia politica della violenza e dell'identità attualmente in voga vorrebbe farci credere, assolutizzando, insieme all'identità, un kronos immobile nel suo scontato divenire finale.
E’ il grande messaggio, difficile e non banale del Giubileo della Misericordia, solo formalmente concluso, che ci ha donato Papa Francesco che non a caso, anche ieri, nella Via Crucis del 2017, così come in quella precedente, di fronte alle bombe in Siria , in Afganistan e in Egitto, ha parlato dei mercanti di armi, dei mercanti di morte.
E' la libertà della nostra rivolta, del nostro tempo, a farci navigare in e verso una resurrezione pervadente che sta alle nostre spalle e insieme di fronte a noi.
Nella nostra memoria, nella nostra storia, ma anche nella nostra speranza, nel nostro divenire.
Un Resurrezione che non possiamo toccare, ma di cui dobbiamo imparare a riconoscere i segni.
Affinché il male non si assolutizzi e renda permanente non l’avvento della Resurrezione, ma i chiodi delle bombe e di una croce che non ci libera, ma ci tiene affogati nel sangue di una storia apparentemente finita.
Proprio oggi, dobbiamo, invece, avere il coraggio di guardare alla Vita che dona Vita, nel tempo che ci resta, il tempo di un'incertezza feconda declinata attraverso la memoria e la fede.
In un sabato santo in cui il silenzio è il nostro tempo, necessario.
Non è un altrove.
Qui e ora.
Il tempo che resta.
Buona Pasqua.


Francesco Lauria

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