giovedì 27 luglio 2017


 "Tornare" a Camaldoli
In memoria viva di GIOVANNI BIANCHI


A pochi giorni dalla scomparsa di una figura davvero significativa, in assoluto, ma anche a livello personale, come Giovanni Bianchi, già presidente n.le delle ACLI, ripubblico una nostra conversazione, tuttora attualissima, di fine 2013, contenuta nella rivista della FNP Cisl: "Contromano".
Bianchi era stato da un anno nominato presidente nazionale dell'APC, l'associazione nazionale dei partigiani cristiani, cui, negli anni cinquanta, dette un significativo impulso, nel parmense, anche mio nonno: Anesio Finardi, partigiano della bassa parmense, scomparso prematuramente nel 1960. 
La prosa bellissima di Giovanni è visibile in tutto il testo, ma voglio fare risonanza della conclusione: 
"Quanto alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare a fare esperienze, sapendo che non tutte  andranno a  buon  fine, ma senza il coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del cristiano chiamato a perdere la propria vita".
Proprio mentre la rivista andava in stampa, scomparve prematuramente, purtroppo, la figlia di Bianchi, Sara, giornalista apprezzata del Sole 24 ore. Fermammo l'uscita del fascicolo per inserire un breve omaggio. Giovanni, negli ultimi anni, contribuì a istituire un premio in memoria della figlia insieme al Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

"TORNARE" A CAMALDOLI

Nato a Sesto San Giovanni nel 1939, ha fondato alla fine degli anni sessanta a Milano
con Sandro Antoniazzi e Bruno Manghi, il “Centro Operaio”.
Dal 1987 dirige la rivista di spiritualità e politica “Bailamme”. Presidente Nazionale della Acli dal 1987 al 1994 è stato Deputato dal 1994 al 2006. Dal 2012 ha assunto la carica di Presidente dell’associazione Partigiani Cristiani.

Lauria: Incontriamo Giovanni Bianchi a circa un anno dalla sua elezione a Presidente dell’Associazione Partigiani Cristiani. E’ il primo presidente che, per ragioni di età, non ha preso parte direttamente alla Resistenza. E’ naturale chiedergli come sta affrontando questo impegno così simbolicamente significativo.
Bianchi: E’ la politica e meglio ancora la cultura politica che tiene insieme una grande associazione popolare. Perché la grande politica (e non la tattica o le convenienze) le conferisce una radice, un destino e quindi una missione. Cultura politica non significa idee che passa- no da libro a libro, ma il vissuto collettivo su un territorio e dentro una storia della quale si ha coscienza perché si continua a farne memoria. Quando si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di passare dal vecchio al vuoto.
Guidare una grande associazione confrontandosi con   le aggressioni dell’anagrafe significa soprattutto tenere culturalmente e concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni. Chi ha il coraggio della discontinuità deve avere acuto il senso della storia: la grande politica è in grado di andare anche “contro” la storia, perché la conosce, la rispetta, sa che è indispensabile miniera nella quale è bene continuare a discendere.
Lauria: Una delle sue prime proposte è partita dai giovani: creare gruppi di riflessione intergenerazionali su “Resistenza e Costituzione…
Bianchi: Una grande epopea popolare come la Resistenza rischia la noia delle liturgie ripetute. I protagonisti di allora sono tutti da tempo avviati verso l’altra sponda. I superstiti hanno tenuto e tengono ancora alta la fiaccola, ma i più baldi hanno superato gli ottantacinque anni.
L’idea va letta in questa prospettiva: messa in comune di storie ed energie con la possibilità concreta di aprire alle nuove generazioni. Fu Dossetti a indicare il legame profondo tra Resistenza e Costituzione. Nel senso che  il patrimonio antropologico e ideale della Resistenza trova sbocco e architettura nella “più bella Costituzione del mondo”. La Costituzione non è leggibile infatti (si pensa all’articolo 11 e a quel verbo inedito che recita “l’Italia ripudia la guerra”) senza la pressione della seconda guerra mondiale e la spinta di ideale delle Resistenze europee.
Sarebbe sufficiente una rilettura dei testi poetici e teatrali di padre Turoldo a ricreare una irripetibile atmosfera. Possiamo risalire all’epopea resistenziale, connubio di lotta armata sui monti e trasformazione delle coscienze nelle città, a partire dalla codificazione degli articoli forgiati alla Costituente.
L’idea ha cominciato a funzionare. Il ponte tra le gene- razioni vede la costruzione delle prime campate, pur lavorando con i “mezzi poveri” consigliati da Giuseppe Lazzati.
Lauria: Il 2013 è anche il 70° anniversario del Codice di Camaldoli, pietra miliare del contributo fondativo, cristianamente ispirato, alla nostra Repubblica. L’Apc ha dedicato un convegno e riflessioni a questo avvenimento. Una scelta non casuale, ma con quale attualità? 
Bianchi: Camaldoli è il momento fondante della politica di ispirazione cristiana del dopoguerra. Una tappa di quello che definiamo il cattolicesimo democratico. Da dove discende lo sguardo lungo del 1943? Perché si fu in grado di evitare quel negozio continuo che impoverirà le politiche del dopoguerra? C’è di mezzo ovviamente l’inevitabile durezza delle cose che allarga lo spazio tra il progetto pensato e l’agenda del fare. Una distanza non minore di quella odierna, in un Paese da ricostruire a partire dalle macerie e in una confusione non inferiore a quella attuale. Il problema del pane quotidiano, del riscaldamento, dell’abitare: per quarantacinque milioni di italiani. Una durissima lotta interna che oppone i resistenti ai nostalgici del regime fascista. Un quadro internazionale destinato alla lunga guerra fredda sotto minaccia della bomba atomica.
Eppure non sono divorati dalla sola ansia del fare. Compitano lungamente un Codice e non un’agenda. Anche il linguaggio segnala un costume dove le virtù del politico sono più prossime al lieto annunzio ai poveri del Nazareno, più parrocchiali, e meno segnate dal mostro mite dell’immagine e dai rapporti con una gerarchia con la quale trattare intorno al tavolo dell’etica i valori “non negoziabili”.
L’interrogativo che ne discende – perché il nostro vuole essere confronto con Camaldoli e non celebrazione da convegno – è quante mani, ivi compresa quella del pensiero unico, abbiano contribuito a scrivere il prontuario delle virtù civiche e politiche del credente dei nostri giorni e dei nostri partiti, laddove insopportabili disuguaglianze vengono legittimate da un prontuario che coniuga merito e bisogno.
Quale allora la molla di Camaldoli? La medesima che Pombeni attribuisce a Dossetti: un’ansia di lettura della storia nel momento del suo farsi, dove l’evento racchiude e suggerisce i “segni dei tempi”, ne indica l’urgenza   e il dovere, riconducendo la cronaca politica ad un’appropriata dimensione profetica. Tornare a Camaldoli implica una ripartenza. Sollecita a estrarne un metodo. 
Lauria: Qualsiasi riflessione sull’impegno cristiano nel sociale non può prescindere dal “vento nuovo” rappresentato da Papa Francesco. Si intravedono davvero segnali di speranza? Con quale concretezza?
Bianchi: La prima enciclica di Papa Francesco consiste nel nome. Il papa gesuita che indica per il discernimento e per la pratica le “periferie esistenziali”. Il cristianesimo ha bisogno di riflettere non soltanto sul rapporto con l’illuminismo, ma sui luoghi che ne sollecitano l’incarnazione e la testimonianza. Non conta quindi soltanto la sistemazione dottrinale, ma la testimonianza sulla quale saremo giudicati in cielo e sulla terra dalle masse degli uomini contemporanei, quella che si sforza di praticare il lieto annunzio ai poveri.
Tornare, come invitava padre Turoldo, “a riprendere i nomi di battaglia, indossare le armi della luce” significa testimoniare, assumerci i rischi della condizione umana in questa complicata fase storica. Anche in Italia, i punti di riferimento non mancano. Da don Tonino Bello al cardinale Martini, a don Luigi Ciotti, per restare tra i presbiteri.
Quanto alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare a fare esperienze, sa- pendo che non tutte  andranno a  buon  fine, ma senza il coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del cristiano chiamato a perdere la propria vita.

Francesco Lauria


Il Codice di Camaldoli
Dal 18 al 24 luglio 1943 un gruppo di intellettuali–laici e religiosi- cattolici si riunì, presso il monastero benedettino di Camaldoli, con l’intento di confrontarsi sul magistero sociale della  Chiesa sui problemi della società, sui  rapporti tra individuo e stato, tra bene comune e libertà individuale.Il 25 luglio e i successivi avvenimenti modificarono il piano di lavoro impedendo altre sessioni di incontro e una più ampia partecipazione; la stesura definitiva fu pertanto affidata a Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Giuseppe Capograssi che la completarono nel 1944; l’opera fu pubblicata nel 1945 con il titolo: “Per la comunità cristiana”, ma è conosciuta come: “Codice di Camaldoli” L’edizione più recente del Codice è stata pubblicata da Edizioni Lavoro nel 2010.

Vedi versione originale dell'intervista:
http://www.centrostudi.cisl.it/approfondimenti/saggi-e-articoli/341-in-ricordo-di-giovanni-bianchi-tornare-a-camaldoli.html

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