giovedì 3 agosto 2017

Trasformare il tempo: tra ancore e nuvole, rivolta e “prendersi cura”


Alcuni anni fa decisi di far iniziare il mio libro sulla bellissima esperienza sindacale delle 150 ore per il diritto allo studio con un vecchio racconto di Gunther Anders[1]. Quella delle 150 ore è stata una vicenda davvero eccezionale per il movimento operaio italiano, di cui aspiravo e asipiro a contribuire a conservare memoria, echi, soffi di prospettive sul presente e sul futuro.
Il racconto scelto ruotava attorno ad una storia antica - presente in tante culture e non solo in quella ebraico/cristiana - la vicenda mitica di Noè e del diluvio universale, facendo tesoro delle riflessioni che, su questa stessa narrazione, sono state ricavate da Jean-Pierre Dupuy[2] e da Marco Deriu[3].
Racconta Anders: «Poiché Noè era ormai stanco di fare il profeta di sventura e di continuare ad annunciare senza tregua una catastrofe che non arrivava e che nessuno prendeva sul serio, un giorno si vestì di un vecchio sacco e si sparse della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi piangeva il proprio figlio diletto o la sposa. Vestito dell’abito della verità, attore del dolore, ritornò in città, deciso a volgere a proprio vantaggio la curiosità, la cattiveria e la superstizione degli abitanti. Ben presto ebbe radunato intorno a sé una piccola folla curiosa e le domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era il morto. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose “Domani”. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noè si erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: “Dopodomani il diluvio sarà stato, tutto quello che è non sarà mai esistito. Quando il diluvio avrà trascinato via tutto ciò che c’è, tutto ciò che sarà stato, sarà troppo tardi per ricordarsene, perché non ci sarà più nessuno. Allora, non ci saranno più differenze tra i morti e coloro che li piangono. Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi.” Dopodiché se ne tornò a casa, si sbarazzò del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo e andò nel suo laboratorio. A sera un carpentiere bussò alla sua porta e gli disse: “Lascia che ti aiuti a costruire l’arca, perché quello che hai detto diventi falso”. Più tardi, un copritetto si aggiunse ai due dicendo: “Piove sulle montagne, lasciate che vi aiuti, perché quello che hai detto diventi falso” ».
Dupuy ci invita a leggere questo racconto di Anders pensando al fatto che la nostra possibilità di pensare il cambiamento debba rimettere in gioco la stessa nozione di tempo, passando da una concezione lineare e progressiva a una circolare che riallaccia futuro e presente, futuro e passato.
Il futuro, infatti, è prodotto dagli atti che abbiamo compiuto nel passato o che compiamo nel presente, mentre il modo in cui agiamo è determinato dalla nostra anticipazione del futuro e dalla reazione che abbiamo di fronte a questa anticipazione.
Oggi viviamo in tempi in cui l’ideologia del presente e dell’istantaneo sembra cancellare sia la memoria che il desiderio di cambiamento e di futuro.
Il presente non è solo immanente: è fragile e attraversato dalla paura, non una paura frutto del riacquisire consapevolezza, come nel racconto di Noè rivisto da Anders, ma che scaturisce dal vuoto della speranza.
Un bel libro di Fr. Alberto Degan[4] mi ha fatto ricordare di come gli indios dell’Ecuador chiamino il tempo che viviamo Yakipachi, cioè il tempo della tristezza, il tempo in cui il mondo è capovolto rispetto a quello che era il progetto originario di Dio: il tempo dell’egoismo, della distruzione della Natura, della libertà dei popoli calpestata, di un’economia vorace che alimenta la miseria.
In realtà, come ci ha ricordato Martin Luther King, proprio grazie alla sua circolarità, ogni tempo, in se stesso è neutrale, spetta a noi fare del tempo in cui viviamo un tempo di grazia o un tempo di disgrazia.
Ci sono avvenimenti, incontri, prese di coscienza individuali e collettive, che trasformano il “tempo della schiavitù nel tempo della liberazione”, per riprendere ancora Degan.
E’ questo, come ci insegnano gli indigeni, il senso del credere e immergersi nella trasformazione possibile del Yakipachi, nel Pachakutik, il tempo della grazia.
Oltre quindici anni fa ebbi il privilegio di scrivere con una giovane ricercatrice italo-ecuatoriana, Antonella Spada, un dossier sulla voce del movimento indigeno, pubblicato dalla rivista Missione Oggi[5], proprio nei giorni del G8 di Genova.
Antonella scovò questa bella citazione sul suo paese, allora stretto tra dollarizzazione, dettami suicidi del Fondo Monetario Internazionale, classi dirigenti che “ballavano sulla miseria”, ma anche un’eccezionale rete di resistenza, che faceva perno sulle Conaie, il coordinamento dei movimenti indigeni, tra rivendicazioni, “levantamientos”, rivoluzionarie proposte di rinnovamento. 
Questo piccolo paese, che, insieme al petrolio e alle Galapagos, ha una miniera di dignità, che fiorisce ogni mese di gennaio, con la luminosità di una rosa”.
La parola d’ordine che gli indigeni lanciavano era, appunto, Pachakutik” che significa il “ritorno dei tempi nuovi”, un ritorno da vivere attivamente costruendolo con millenaria pazienza e caparbietà, nella certezza che arriverà, E’ per questo che, molte volte, per il movimento indigeno le sconfitte significano a lungo termine trionfi, significano un incremento di risultati perché la “dinamica indigena” non è uguale a quella occidentale, molte volte tarda e aspetta, ma, come dicevano Athaualpa e Tupac Amaru  “Me voy, muero, pero seremos millones”. (“Me vado, muoio, ma quando ritornerò saremo milioni”).
Vivere la consapevolezza dell’intreccio tra passato, presente e futuro, con la concretezza che spesso è dei poveri, dei deboli, come sono la grandissima parte delle popolazioni indigene, è la nostra possibilità donata di imparare “a trasformare il tempo”, immergerci, anche da occidentali, nel nostro kairòs, quel “tempo opportuno” che è fuori e dentro di noi.
E’ dall’incontro con le persone “ponte” che ho visto come sia possibile, nella vita personale e sociale, costruire l’attesa attiva  e circolare del Pachakutik nel kairòs.
Avere cura (in spagnolo “cuidar), dei nostri sogni e della nostra capacità di resistenza (che poi significa anche avere cura di noi stessi e delle nostre anime) mettendo in campo concretezza e fantasia, prosa e poesia, ma soprattutto ricostruendo una capacità di relazione cooperativa, solidale, ponti di comunione e di dialogo, anche nelle diversità.
La sfida vera è riscoprire la capacità di amarci nell’altro e di riconoscere l’altro che c’è in noi.
Le migrazioni sono, in questo senso, una grandissima occasione, anche se ci troviamo non troppo distanti da un diluvio che è insieme tormento e opportunità, come l’antico, presente e futuro, racconto di Noè ci ricorda, inesorabilmente.
Tutti noi, però, possiamo contribuire a cambiare il corso della storia e trasformare il tempo, avendo cura di ciò che ci è stato donato, non per i nostri figli, ma, come scrivevano altri “indigeni”, per i nostri nipoti.

Francesco Lauria





[1] Anders G. L’uomo è antiquato. 2. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992 (1980)
[2] Dupuy J.-P., Piccola metafisica degli tsunami, Donzelli, Roma, 2006
[3] In Bosi A. Deriu M., Pellegrino V. Il dolce avvenire. Esercizi di immaginazione radicale del presente, Diabasis, Reggio Emilia, 2009
[4]DEGAN A. Trasformare il tempo. Lettere agli amici dall’Equador. Padova, 2005.
[5] SPADA A. LAURIA F. “Storia di un paese plurinazionale”, Dossier. Missione Oggi, Giugno-Luglio 2001.

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