lunedì 14 agosto 2017


1980-2017. Da Pistoia a Danzica. I cantieri navali e noi: memoria e libertà, tra Lenin e Reagan

Il 14 agosto 1980 ebbe inizio lo sciopero nei cantieri navali di Danzica che si sviluppò nell'autunno concretizzando una grande e deflagrante esperienza di lotta sindacale e politica per la libertà.
Un germoglio che avrebbe raggiunto carsicamente il fatidico 1989.
Ripubblico il racconto del mio viaggio da Pistoia a Danzica, dell'ottobre scorso, pensando alle fratture dell'oggi e alla scommessa profetica, pur tra contraddizioni già visibili, di quel tempo che ha nel 14 agosto 1980 una data fondamentale.
Nelle prossime settimane tornerò in Polonia e cercherò di arricchire il mio viaggio nella memoria.

Danzica è una città che sa sorprendere.
Chi pensa, atterrando nel rinnovato aeroporto Lech Walesa, di raggiungere semplicemente una realtà industriale in declino, magari grigia e fredda, deve poi ricredersi. Certo, i segni del cambiamento, con le sue difficoltà ci sono tutti, ma la realtà è complessa. Innanzitutto ci troviamo in un crocevia della storia, in particolare del Novecento. Ciò che fu Sarajevo per la Prima guerra mondiale, lo è stata questa città posta sul mare, alla confluenza della Motlawa e della Vistola, per la Seconda. Fu infatti la pretesa insoddisfatta di ottenere la “città di libera” di Danzica, a fornire ad Hitler il pretesto per l’invasione della Polonia, attaccata da ovest, mentre veniva aggredita da Stalin ad est.
Ma, soprattutto, ci troviamo nella città dei cantieri navali e della lotta per la conquista della libertà. Quei cantieri, intitolati a Lenin, hanno visto la grande rivolta sindacale e politica di Solidarnosc.
Quando giungo, infreddolito, all’insegna che indica l’ingresso agli ex cantieri Lenin “Stocznia Gdanska”, la vecchia scritta porta i segni della ruggine e cela alcune costruzioni con i mattoni rossi che ricordano un passato produttivo, ormai tramontato. Valicarla, nella sua sobrietà, non può non provocare emozione.
Per me non è la prima volta. Scopro nuovi dettagli, mi accorgo che la scritta Lenin non è stata portata via, semplicemente è stata coperta con le lettere: “Solidarnosc”. A fianco un chiosco con i souvenir, discreto, ma comunque un po’ stridente. Subito, sulla sinistra, appare nella sua imponenza il monumento ai morti dei primi scioperi, quelli, meno noti, del 1970. Gli operai si trovarono crudelmente senza scampo tra la milizia schierata e le rotaie dei treni, un vero e proprio assassinio di Stato di cui, mi dicono, per anni non si poté nemmeno parlare.
Poi arrivò il 1979, la visita di Giovanni Paolo II° nella sua Polonia, i licenziamenti e le vertenze salariali, il tempo maturo per una vera e propria rivolta. Nell’autunno del 1980 lo sciopero fu guidato da Lech Walesa, elettricista allontanato dai cantieri alcuni anni prima, la miccia, in questo caso, fu il licenziamento politico, a pochi mesi dalla pensione, di una donna, sempre impiegata nel complesso industriale. Fu così che in quel frangente la storia cominciò a procedere con un passo accellerato. Oggi, la storica sala Bhp, all’epoca un grande spazio mensa dei lavoratori dei cantieri dove si svolsero le trattative durante lo sciopero, è una moderna sala conferenze di Solidarnosc. Si possono toccare quasi con mano molti cimeli, a partire dai caschi gialli degli operai, dalle storiche bandiere del sindacato, fino ai modellini delle navi un tempo costruite a Danzica, salvati dalla distruzione, quando, caduto il Muro, i cantieri fallirono per una prima volta. Fu lì che si produsse il trionfo di Walesa e del primo sindacato libero, breccia nel blocco comunista. 
Lo testimoniano le foto e i filmati dell’epoca in cui il sindacalista con i baffi conclude vittoriosamente le trattative e firma l’accordo con il Governo con una curiosa enorme penna che, si dice, contenesse il ritratto nascosto del Papa polacco. “L’uomo di ferro”, film dell’epoca, girato avventurosamente, ritrae Walesa nelle settimane dello sciopero. Lo posso vedere sul luogo, proprio pochi giorni dopo la scomparsa dell’autore, il grande regista polacco Andrzej Wajda. A sinistra della sala, vicino all’imponente monumento ai morti del 1970, da un paio d’anni, è stato aperto un grande museo che permette di rivivere, con l’ausilio delle moderne tecnologie, tutto il percorso che, dal 1970, ha portato, in venti anni, alla democrazia. 
La giovane guida che accompagna me e un centinaio di sindacalisti provenienti da tutta Europa è documentatissima e appassionata. Le sfuggono alcuni accenti trionfalistici, ma l’immersione nella rivolta e nel successivo complesso ritorno alla clandestinità per poi culminare nell’incredibile 1989 è assolutamente coinvolgente. Danzica quindi, come noi del resto, deve fare i conti con la memoria e con il presente. Dei diciottomila operai che lavoravano presso i cantieri navali, solo poche migliaia sono oggi ancora impiegati in cantieri più piccoli, privati. Per ora le grandi o medie navi non si costruiscono più, al massimo si riparano e si sperimentano nuovi business, come la costruzione di componenti per le pale eoliche. Tutta la zona intorno alla sala Bmp è stata interessata da una grande possibile speculazione edilizia, per ora bloccata, in quella parte della città il progetto è di costruire un’enorme ipermercato. Salve, invece, le storiche altissime gru dei cantieri, monumento riconosciuto dall’Unesco e di cui ora nessuno potrà più sbarazzarsi, con la scusa della ruggine. Ne parlo con Agnieszka Rybczyńska (nella foto a sinistra) responsabile europea di Solidarnosc. Agnieszka è cresciuta a Danzica e mi racconta l’altra faccia della medaglia del post 1989.



I cantieri, già in crisi, cominciarono un declino molto veloce, fino ad una prima bancarotta nel 1996. 
"Nei primi anni novanta – mi racconta – io facevo le scuole superiori. Ad un certo punto molti miei compagni si trovarono con i genitori, compresi quelli che lavoravano nell’indotto, senza lavoro, non partecipavano più alle attività scolastiche, dovettero rinunciare al progetto di andare all’Università. Seguirono vari processi di dismissione e privatizzazione: il grande miraggio del libero mercato paradossalmente - continua Agnieszka - ha presentato velocemente e duramente il conto proprio qui e proprio a quegli operai che si erano rivoltati contro il comunismo di Stato".

Le chiedo di parlarmi di Danzica oggi. Lo fa con orgoglio, tornando, però al passato. Mi confida di come mai proprio qui, è potuta scoccare le scintilla della libertà.
“Questa è una città – racconta la sindacalista – che è sempre stata diversa, più aperta delle altre città della Polonia. Quando un mio cugino mi veniva a trovare dall’altro lato del paese – ero piccola – ridevo del fatto che lui rimanesse a bocca aperta vedendo, al porto, asiatici e africani”.
A Danzica c’era e c’è, ad esempio, una storica minoranza mussulmana, di origine tartara. Oggi non si costruiscono nuove navi, ma è stata aperto un grande polo tecnologico, dove le navi si disegnano e si è mantenuto un significativo polo della logistica.
“I cantieri non ci sono quasi più – conclude Agnieszka – dobbiamo costruire il futuro su diversi pilastri, non solo nell’industria pesante".
“Già - mi fa notare una giovane ricercatrice anch’ella polacca - qui il mare è bellissimo. Certo ai tempi d’oro dei cantieri, a causa dell’inquinamento, i miei genitori dovevano spostarsi per chilometri per non trovare un’acqua di acciaio, di ferro e di piombo”.
Mentre parlo con Agnieszka i vertici dei tre diversi sindacati polacchi si confrontano con un certo agonismo di fronte alla platea europea. I temi caldi sono generali: i diritti civili (in particolare l’aborto) e i rifugiati. Per me è ormai tempo di tornare all’aeroporto, curiosamente intitolato al vivo e vegeto Lech Walesa. 
Ho nella borsa un grande boccale da birra in ceramica che i colleghi di Solidarnosc hanno voluto donarmi. I rilievi della ceramica raffigurano un po’ di tutto: dai caschi degli operai all’icona, stilizzata, di Giovanni Paolo II°, il celebre simbolo-icona di Solidarnosc, disegnato, apprendo, proprio nei giorni della rivolta. 
Non manca una nave, un vascello, a vele spiegate. Solo le vele del vento della libertà, mi dico. Guardo meglio e decifro la scritta all’interno: R. Reagan. 
La rileggo, incredulo. Chi, per molti, ha rappresentato l’icona del liberismo più sfrenato e della deregolamentazione del lavoro per altri, ancora oggi, è, invece, un simbolo di emancipazione.
Ma di questo, sono certo, parlerò con i colleghi polacchi nella prossima visita. Nel frattempo gli occhi si chiudono, le nuvole nei sogni cambiano colore, e Pistoia, lentamente, si avvicina.

Francesco Lauria

Pubblicato su:
http://www.reportpistoia.com/news/item/41230-da-pistoia-a-danzica-i-cantieri-navali-e-noi-memoria-e-liberta-tra-lenin-e-reagan.html

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