lunedì 11 settembre 2017


RITROVARE IL TEMPO E LA COMUNITA' SMARRITA.
Riflessioni notturne, alla vigilia di un viaggio ai confini d’Europa, prima dell’Apocalisse.

http://www.reportpistoia.com/agora/item/51603-ritrovare-il-tempo-e-la-comunita-smarrita.html

Chi deve interpretare il tempo che resta per ritrovare una bussola nella comunità smarrita?

Alla vigilia di una serie di viaggi “sindacali” in Europa è questa la domanda notturna che risuona, analizzando quella che Aldo Bonomi ha definito, riecheggiando Bauman, “liquefazione spaziale”.

Questa perdita della solidità e relazione si ritrova anche a cospetto della rilevante perdita di capacità di trasformare il lavoro, nelle sue varie e non sempre catalogabili forme ipermoderne,  in soggettività collettiva attiva e solidale.

Lo sguardo, in particolare se si rivolge all’Europa strappata di questo tempo, rimane sospeso nelle “vicissitudini dell’io”, ripetuto nazione per nazione, incapace di rielaborare, uscendo da sé, un noi inclusivo, in cui riconoscersi, essere riconosciuto e, infine, riconoscere.

Ci perdiamo, naufraghiamo come singoli e collettività, nell’incapacità di ritrovarci, pensiamo di costruire nuovi recinti, nuove illusorie e falsamente rassicuranti comunità chiuse, a volte, le trasformiamo, persino in “comunità maledette”, nonostante il monito che le guerre “fratricide” dei Balcani avrebbero dovuto imperituramente lasciarci.

Nella gassosità delle relazioni liquide, ma anche nel tempo di una globalizzazione supersonica, l’Unione Europea e i suoi popoli sembrano aver perso sia il concetto del tempo che quello dello spazio, continuiamo a intuire quando sia importante “appartenere”, ma siamo orfani della prossimità che si fa sguardo condiviso e d’orizzonte.

Cerchiamo, come ha scritto Marco Revelli, un “Noi certificato”, dove la domanda di sicurezze identitarie si confronta con la pratica delle esperienze plurime e precarie e della disseminazione e scomposizione valoriale, senza comprendere che la libertà, non è distanza o dominio, ma relazione.

Risuona fortissima l’immagine della scomposizione in semplice area di libero scambio per le “cose”, le “merci” e non per le persone, della (Comunità), per ora Unione Europea.

Una Comunità che era nata certo, anche su basi economiche, ma che è stata costruita da uomini di frontiera, dal tessuto di relazioni di tante piccole comunità, non più in lotta, ma alla ricerca di legami e relazioni nuove.

Penso a due grandi figure, indimenticabili eppure, almeno parzialmente, dimenticate, uomini di pace, con cui, in particolare con la seconda, ho avuto occasione di confrontarmi, ascoltare, imparare, ammirare, mutare lo sguardo: Umberto Serafini e Gianfranco Martini.

Umberto Serafini, padre fondatore del Consiglio dei Comuni (e poi anche delle Regioni) d’Europa, è stato un alfiere fondamentale, ispiratore e realizzatore del contributo sempre più rilevante portato dagli enti locali e regionali alla costruzione di un’Europa unita e federale e contribuì, insieme ad Altiero Spinelli ed Alexandre Marc, a guidare quel “fronte democratico europeo” che si batté duramente e con successo nella lotta per l’elezione popolare diretta del Parlamento europeo.

Gianfranco Martini oltre che uno dei più ironici e dolci dirigenti “sociali” che io abbia mai conosciuto ci ha regalato una vita fatta di impegni internazionali nel segno della costruzione dell'Europa dal basso, popolare, non nazionalista. Anche nella creazione della rete, durante la tragedia dei Balcani, delle “Ambasciate della democrazia locale” ha sempre creduto in una visione dell'Europa nello stesso momento alta (riforma delle istituzioni) e bassa (l'Europa delle città e dei cittadini).

Serafini e Martini hanno creduto, fin dalla fine degli anni quaranta, nella politica del gemellaggio tra comuni europei che è stato uno dei punti di forza di questa visione politica d'insieme. I gemellaggi, sono stati uno straordinario mezzo concreto per costruire una rete di solidarietà e di pace, quella pace per cui, anche se forse lo abbiamo dimenticato, l’Unione Europea ha ricevuto il Premio Nobel.

Fu Gianfranco Martini a ispirare il titolo della mia tesi di laurea, scritta sul campo, nel buco nero d’Europa, la “comunità maledetta” di Prijedor, nella repubblica serba di Bosnia: “la diplomazia dell’Europa minore”. I gemellaggi e poi, con un’esperienza allargata alla società civile, al sindacato, al terzo settore, le ambasciate (ora agenzie) della democrazia locale, sono state una vera forma di diplomazia popolare espressa nell’Unione Europea e al di fuori, nei confini prossimi, come i Balcani e il Caucaso.

Allora quali risposte l’uomo, ma anche la politica, il sindacato, possono provare a dare per ritrovare una “comunità operante”, ritrovata, la comunità che “viene”?

Proprio pensando a figure come Umberto Serafini e Gianfranco Martini torna alla mente ciò che aveva affermato, ormai venti anni fa, Danilo Dolci in un dialogo con Aldo Bonomi, ospitato dalla rivista Communitas e pubblicato a dieci anni dalla sua scomparsa: “per esistere, nell’iper modernità che avanza, nel dislivello temporale che incombe, l’essere con ha bisogno di testimonianza”.

 Di durata nelle persone che la animano.

Di tempo sedimentato e di vite investite responsabilmente.

Ci dice Dolci, ormai arrivato alla fine della sua lunga, incredibile, bellissima vita, che, in questa scomposizione, dobbiamo diffidare “degli uomini in fuga, delle presenze effimere”.

Allora la dimensione comunitaria, oggi più di ieri, ha bisogno dell’incontro reale, dell’ascolto del “tu”, della rinuncia all’autoaffermazione unidirezionale dell’Io.

“Fare comunità” vuol dire “fare relazione”.

“Il migliore produttore di comunità – conclude Danilo Dolci coerente con la sua pedagogia rivoluzionante e realmente socratica – è chi domanda, non chi insegna, o dirige”.

Occorre quindi riguadagnare nella terra del presente, tempo, spazio e futuro.

Ricostruire comunità, nel villaggio globale, l’Europa che viene.

Prima dell’Apocalisse.

Francesco Lauria

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